BERLUSCONI A SORPRESA DICE SÌ AL GOVERNO
Prima annuncia il voto contrario, poi il dietrofront. E alla fine l’esecutivo di Enrico Letta incassa 235 sì e 70 no...
ROMA - (ITALIA) - 2 OTTOBRE 2013 - «Mettendo insieme le aspettative e il fatto che l’Italia ha bisogno di un governo che produca riforme istituzionali e strutturali abbiamo deciso, non senza interno travaglio, per il voto di fiducia!». Fino a mezzogiorno Silvio Berlusconi aveva fatto capire che il governo Letta la fiducia del suo partito non l’avrebbe mai avuta. Poi il dietrofront, in extremis: prendendo la parola in Senato poco prima del voto (era stato annunciato che l’intervento a nome del Pdl lo avrebbe pronunciato il capogruppo Schifani) il Cavaliere cede alle «colombe» e annuncia che tutto il Pdl - perché in quel momento il partito è ancora formalmente uno soltanto - è pronto a votare per la continuazione dell’esperienza di governo. In un attimo perdono consistenza tutti i passi compiuti nell’ultima settimana: l’annuncio delle dimissioni di massa dei parlamentari, il ritiro della delegazione ministeriale, la mobilitazione nelle piazze e sui social network. Uscendo da Palazzo Madama ripeterà più volte a chi gli sta attorno che «non c’è stata nessuna marcia indietro». Ma è una posizione difficile da sostenere dopo che per tutta la mattina i suoi fedelissimi avevano inondato le agenzie di dichiarazioni improntate sulla linea della fermezza: il cambio di strategia è stato costretto a subirlo, alla fine ha potuto solo cercare di assecondarlo.
MAGGIORANZA SALDA - La sua mossa a
sorpresa è servita per sterilizzare, mediaticamente, la nascita del
nuovo gruppo centrista composto dai fuoriusciti guidati da Alfano e
Cicchitto. Anche Enrico Letta al termine del breve discorso gli
riconosce indirettamente di essere «un grande». Non è un caso se alla
fine il capo del governo è sorridente: ha scampato il pericolo e il
voto dà a lui - e indirettamente al Quirinale - la certezza che ora
Palazzo Chigi potrà contare su un sostegno solido, che evita il ritorno
alle urne senza bisogno di inventare improbabili maggioranze
alternative. I voti a favore della fiducia sono 235, quelli contrari 70.
Solo sei senatori del Pdl (Sandro Bondi, Manuela Repetti, Remigio
Ceroni, Augusto Minzolini, Alessandra Mussolini, Nitto Palma) rifiutano
di partecipare al voto. Per ironia della sorte, il presidente Grasso
estrae la lettera B ed è dunque proprio Berlusconi uno dei primi a
sfilare sotto i banchi della presidenza durante la chiama individuale.
Poi, pochi minuti più tardi, uscendo dal palazzo gli toccherà subire
anche gli insulti e i fischi di un centinaio di persone radunate sulla
piazza.
IL NUOVO GRUPPO - Il copione
della fiducia si ripete alla Camera, dove il Pd aveva comunque una
solida maggioranza e i voti dei berlusconiani non sono determinanti.
Alla fine infatti a Montecitorio i sì per Letta sono 435. Proprio
nell’emiciclo di Montecitorio debutta il nuovo gruppo dei dissidenti:
sono 26 i deputati che passano nella nuova formazione, guidata da
Fabrizio Cicchitto. Tra loro c’è anche l’ex ministro Beatrice Lorenzin;
gli altri ministri uscenti risultano ancora in stand by ma a parte la
Di Girolamo, che ha detto di voler restare con Berlusconi. Non si sa
ancora bene come chiamarli i parlamentari fuoriusciti: qualcuno azzarda
«alfaniani», Roberto Formigoni fa invece sapere che potrebbero chiamarsi «I Popolari»,
in omaggio al vecchio Partito Popolare di don Luigi Sturzo. Sarebbero
al momento una cinquantina, tra Senato e Camera, i parlamentari pronti a
far parte della nuova formazione.
IL BIS ALLA CAMERA - Enrico Letta, che al Senato aveva pronunciato un intervento tutto basato sulla responsabilità e sul bisogno di garantire stabilità al Paese,
a Montecitario può sbilanciarsi e ostentare ottimismo: «Da oggi si
lavorerà con una maggioranza politica coesa, ora serve chiarezza».
Un passaggio ripreso dal capogruppo Pdl Renato Brunetta, uno dei fedelissimi di Berlusconi, che in mattinata aveva twittato convinto a proposito di un voto contrario del suo gruppo.
Nel suo intervento a Montecitorio non può che allinearsi a Berlusconi:
««Al di là dei suoi silenzi e dei distinguo e nonostante provocazioni
continueremo a stare qui e a darle fiducia. Ci può essere un nuovo
inizio? Crediamo sia un suo e un nostro dovere e a testa alta votiamo sì
al nostro governo, per realizzare il suo programma, il nostro
programma».
SANTANCHE’ E LE MANI NEI CAPELLI - Per il gruppo dei «dissidenti» l’intervento è affidato a Fabrizio Cicchitto che parla di Alfano come di un «campione» a cui affidare le speranze del nuovo centrodestra. Parole decisamente sgradite a Daniela Santanché.
indicata proprio da Cicchitto nei giorni scorsi come una delle cause
della deriva estremista del Pdl: la deputata ha sottolineato le parole
di Cicchitto scuotendo la testa e quando il suo ex collega fa
riferimento ad Aflano si porta le mani ai capelli scandendo un «ma come
si fa?».
LA MATTINATA - Per Berlusconi è
in ogni caso una giornata da dimenticare, il cui epilogo era
impensabile fino all’ora di pranzo. Il gruppo del Pdl al Senato aveva
optato per la sfiducia al governo Letta. La decisione era arrivata in un
convulso vertice tra lo stesso Berlusconi e i parlamentari
pidiellini, dopo il discorso di Enrico Letta a Palazzo Madama.
«Voi fallirete, avete avuto come unico risultato quello di spaccare il
Pdl, noi non assisteremo a questa umiliazione del nostro partito, di
Berlusconi e dell’Italia» aveva sottolineato in Aula Sandro Bondi rivolto a Letta. Ma almeno ventitré dissidenti del Pdl avevano già annunciato il «sì» al governo. Tanto che Maria Stella Gelmini aveva ammesso: «I destini sono separati. Fine».
IL PARTITO - Nelle prime ore
della mattinata, Berlusconi aveva lasciato ipotizzare una possibile
apertura alla fiducia dicendo ai giornalisti: «Vediamo che succede...
Sentiamo il discorso di Letta e poi decidiamo». Apertura che, però,
aveva poi compreso, non gli sarebbe bastata a scongiurare la spaccatura
del Pdl, tanto da spingerlo a votare comunque la sfiducia. Proprio
mentre era in corso il vertice, infatti, i dissidenti avevano lasciato
intendere che avrebbero dato vita, comunque, a un gruppo autonomo. Di
qui la scelta di andare alla conta. Quando il foglio con le firme
raccolte da Quagliariello inizia a circolare, il Cavaliere capisce di
non trovarsi davanti a qualche defezione isolata. Nasce in quel momento
la decisione di sparigliare , di non farsi chiudere nell’angolo, di
cambiare ancora lo scenario. E di votare sì alla fiducia.
Fonte: http://www.corriere.it