Alle 8:15 di mercoledì (l’1:15 italiana) a Hiroshima, in Giappone, c’è stata, come ogni anno, una preghiera in silenzio. Le 8:15 è l’ora in cui, esattamente ottant’anni fa, un bombardiere degli Stati Uniti sganciò sulla città la prima bomba atomica mai impiegata in una guerra. La seconda, e finora ultima, fu usata tre giorni dopo su Nagasaki, a circa 400 chilometri di distanza. Era la fine della Seconda guerra mondiale: il Giappone era già sconfitto militarmente ma aveva rifiutato di arrendersi (la Germania nazista lo aveva fatto a maggio). Il 15 agosto del 1945 annunciò la resa incondizionata.
La bomba atomica fu lanciata da circa 10mila metri d’altezza da un bombardiere B-29 che si chiamava “Enola Gay” come la madre del suo pilota, Paul Warfield Tibbets. Scoppiò 600 metri sopra il centro di Hiroshima, sopra l’ospedale Shima. In quella zona rimase in piedi solo un edificio, la cui cupola è uno dei simboli della città. Le persone uccise dalla bomba furono più di 200mila (su 318mila abitanti): 140mila a ridosso dell’attacco, le altre nei mesi e negli anni successivi a causa delle radiazioni, di cui all’epoca il governo statunitense nascose gli effetti devastanti, minimizzandoli con una campagna di disinformazione.
Il 9 agosto del 1945, come detto, gli Stati Uniti sganciarono la seconda bomba atomica su Nagasaki (con una carica esplosiva di 20 chilotoni, più potente di quella di Hiroshima che era di 15 chilotoni, anche se il New York Times parlò di 20). A Nagasaki furono uccise almeno 75mila persone.
Hiroshima e Nagasaki furono scelte come obiettivi perché, in estrema sintesi, erano praticamente le uniche tra le maggiori città giapponesi dove ci fosse ancora qualcosa da distruggere. Nei mesi precedenti erano state risparmiate dall’aviazione statunitense con il preciso scopo di condurvi l’attacco dimostrativo, che mostrasse cioè al mondo la potenza della nuova bomba. Gli aerei viaggiarono di giorno e furono inviati senza scorta per far pensare ai giapponesi che fosse una missione di ricognizione. Non lo era.
L’aspetto simbolico non fu secondario rispetto a quelli militari, ancora dibattuti. Hiroshima era la sede di numerose industrie militari e del quartier generale che avrebbe guidato la difesa del Giappone meridionale in caso di invasione. I comandanti delle forze armate statunitensi volevano costringere l’Impero a una resa per evitare di doverlo invadere via terra: una campagna militare che sarebbe stata assai dispendiosa in termini di uomini e di risorse, dopo anni di combattimenti (gli Stati Uniti entrarono in guerra nel dicembre del 1941 in seguito all’attacco giapponese sulla base navale di Pearl Harbor, alle Hawaii). Questo obiettivo venne raggiunto.
Negli anni successivi agli attacchi sul Giappone, e alla fine del secondo conflitto mondiale, ci fu una gara tra Stati Uniti e Unione Sovietica, le due maggiori potenze dell’epoca, a dotarsi della bomba atomica. Nel contesto della Guerra Fredda, infatti, possederle era considerato un deterrente: necessario cioè a scoraggiare un attacco dell’altro blocco. A partire dagli anni Settanta, Stati Uniti e URSS iniziarono un dialogo improntato al controllo e alla limitazione delle armi atomiche, con ispezioni reciproche e più trasparenza sugli arsenali.
Questa fase, che non portò mai a un vero disarmo, è di fatto finita con l’invasione russa dell’Ucraina. Nel 2023 la Russia si è ritirata dal New START, l’ultimo di una serie di trattati di non proliferazione nucleare, e come diretta conseguenza delle sue minacce espansionistiche diversi paesi europei hanno rivalutato l’importanza di possedere arsenali atomici. Mercoledì alla cerimonia annuale il sindaco di Hiroshima, Kazumi Matsui, ha commentato questi sviluppi: ha parlato di «una tendenza al riarmo nel mondo» dicendo che «ignora spudoratamente le lezioni che la comunità internazionale avrebbe dovuto imparare dalle tragedie della Storia».
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