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lunedì 9 febbraio 2009

Le nuove relazioni tra Cina e Taiwan...

Di Andrea Gilli...

Nel corso degli ultimi anni, le relazioni tra Cina e Taiwan sono nettamente migliorate. Questo rapido processo, accolto favorevolmente dalla popolazione di entrambi i Paesi, è cominciato a partire dalla caduta di Chen-Shui Bian e sembra destinato a rafforzarsi ulteriormente. L’unica scontenta è Washington. Pare dunque utile cercare di capire sia le cause di questo avvicinamento che della scarsa soddisfazione americana - sorprendentemente, si vedrà che tutta la situazione scaturisce da un’unica causa, la crescita cinese.
Nel corso degli ultimi anni, Cina e Taiwan hanno visto le loro relazioni economiche, culturali e infine politiche rafforzarsi sensibilmente fino a livelli che sarebbero parsi impossibili solo un quinquennio addietro.
Questo processo è tanto interessante quanto singolare in quanto Cina e Taiwan vivono un antagonismo storico, dovuto al fatto che i due Paesi rappresentano uno la negazione dell’altro. Taiwan fu fondata da Chiang Kai- Shek, il leader del Kuomintag che, sconfitto da Mao nel 1948, rifugiò sull’isola di Taipei. Subito rinominata Cina, essa divenne la base dalla quale sperava di riconquistare Pechino. La Guerra fredda spinse inizialmente Washington a sostenere Taiwan. Ma quando, con i dissapori e il distacco della Cina dall’orbita sovietica nel corso degli anni ‘60, Washington scorse la ghiotta opportunità di allearsi con Mao, le ragioni di Taiwan vennero presto sacrificate sull’altare della Real Politik, prima da Nixon, che compì il famoso viaggio nella capitale cinese, e poi da Carter che istituzionalizzò le relazioni tra i due Paesi.
Ciononostante, Washington ha sempre offerto il suo sostegno difensivo a Taiwan, non tanto per ideali democratici, quanto piuttosto perché se la Cina avesse conquistato l’isola, la sua presa geopolitica sull’Est Asia sarebbe diventata ancora più solida.
Il sostegno a Taiwan va infatti compreso in un più grande disegno geopolitico volto a bilanciare la crescita della Cina. Gli Stati Uniti, attraverso il loro sistema di basi militari dislocate nel pacifico, la cooperazione del Giappone e di Taiwan, i loro soldati in Corea, l’alleanza informale con Australia e Filippine e quella strumentale di Thailandia e Vietnam, sono per l’appunto in grado di prevenire il rafforzamento marittimo di Pechino.
Questo sistema, che finora ha funzionato, ha però due grandissimi problemi. In primo luogo, tutti questi Paesi sono minuscoli se paragonati alla Cina. Inoltre, Corea del Sud, Taiwan, Giappone e, in parte, Filippine, non hanno indipendenza terrestre, nel senso che sono insulari o peninsulari e la terra ferma che li domina è quella cinese senza contare che tra questi Paesi non vi è continuità territoriale. Dunque una rappresaglia cinese nei loro confronti sarebbe devastante oltre che non particolarmente impegnativa da parte di Pechino. Come gli studi nel campo hanno dimostrato, il problema principale delle alleanze è di cooperation. Ogni attore ha il classico terrore di restare “con il cerino in mano“. Gli Stati Uniti devono quindi assolutamente evitare che anche uno solo di questi Paesi si discosti dalla protezione americana - il rischio tutt’altro che remoto sarebbe di vedere tutti questi Paesi scappare uno dopo l’altro da Washington per paura di restare l’unico avamposto con funzione anti-cinese in Asia.
In secondo luogo, l’Asia sta osservando un drammatico rafforzamento politico (economico, sociale, militare) della Cina. In altre parole, la Cina sta diventando sempre più forte e per quanto questi Paesi possano tentare di pareggiare questa crescita, è chiaro a tutti che neppure la loro più stretta collaborazione, nel lungo termine, potrà alcunché - proprio come la lezione che Messico e Canada hanno imparato rispetto agli Stati Uniti.
Il miglioramento delle relazioni tra Cina e Taiwan va dunque guardato, e spiegato, in questo più ampio contesto e non può certo sfuggire che dinamiche assolutamente analoghe si sono sviluppate anche in Thailandia, in Corea del Sud e in Vietnam.
Per inferenza, pare chiaro che la distensione dei rapporti tra la Cina e i vari Stati dell’Est Asia si debba all’inquietudine che la crescita cinese suscita in questi Paesi. Consci dell’impossibilità di resistere ad una guerra (sia politica, che economica o militare) con la Cina (specie alla luce del declino relativo americano), questi Stati, Taiwan incluso, si stanno adeguando ad un nuovo assetto geopolitico nella regione.
Non sorprende dunque che l’unico antagonista a questo processo sia Washington. Se le relazioni in Est Asia dovessero distendersi, la Cina si troverebbe assolutamente egemone in tutta la regione. Non solo infatti la giustificazione della presenza militare americana in loco verrebbe a mancare, ma Washington subirebbe crescenti pressioni per ritirarsi. In questa situazione, l’America non potrebbe più controllare e limitare l’ascesa cinese, politica, economica ma soprattutto militare (marittima). E la via al multipolarismo sarebbe definitivamente aperta…

Afghanistan, Kyrgizstan, Russia e Iran: la sfida impossible...

La situazione afghana sta peggiorando sensibilmente. Non da oggi, ma da diversi anni e ora la situazione è quanto mai incerta. Dalla fine del 2002, almeno, le vicende del Paese sono andate in maniera alterna. Tempo, risorse e uomini sono stati persi per via di strategie miopi e obiettivi verosimilmente irrealizzabili. Purtroppo, le dinamiche internazionali sembrano destinate a rendere la questione afghana ancora più complicata. Gli Stati Uniti, per bocca del Segretario della Difesa Robert Gates, hanno affermato di mirare oramai solo ad obiettivi minimi: la domanda è se anche questi obiettivi minimi siano ancora raggiungibili. I dubbi che nutriamo a proposito verranno esplicitati nell’articolo.
A poche settimane dal giuramento che ha portato alla Casa Bianca Barack Obama, gli Stati Uniti, forti anche dei successi in Iraq, stanno concentrando la loro attenzione sull’altro pilastro della guerra al terrorismo, l’Afghanistan. Dopo sette anni di operazioni, non solo Osama Bin Laden non è stato catturato, ma i talebani, mese dopo mese, hanno riconquistato molte delle loro posizioni (perse nella prima parte dell’invasione americana iniziata nel 2001). Per bocca dello stesso Segretario alla Difesa Robert Gates, gli Stati Uniti stanno fissando degli obiettivi minimi in Afghanistan: combattere il terrorismo, ed evitare che il Paese sprofondi nel caos. Democrazia, libertà, sviluppo sociale e politico - per il momento - sono fuori portata.
Purtroppo, anche gli obiettivi minimi sembrano però diventare giorno dopo giorno tutt’altro che di facile portata. In questo articolo cerchiamo di spiegare per quale ragione l’Afghanistan troverà difficilmente in breve tempo una soluzione stabile.
La Geopolitica dell’Asia CentraleIl primo fattore che rende difficile una soluzione alla questione afghana è rappresentato dalla geopolitica centrasiatica. Bisogna innanzitutto ricordare che, con l’Operazione Enduring Freedom, gli Stati Uniti hanno raggiunto un obiettivo mai neppure immaginato dalle potenze marittime. Washington è riuscita a dislocare delle basi militari in Asia Centrale: in Afghanistan, in Uzbekistan, in Kyrgizstan. Si era nel 2001 e 2002. La Cina era appena entrata nel WTO e voleva mantenere neutre le sue relazioni con Washington per far proseguire la sua crescita economica, politica e anche militare. La Russia stava lentamente ristabilendo la sua autorità interna, volta a riacquistare la sua posizione internazionale. In quella fase, anche alla luce degli orrendi attentati dell’11 settembre, permettere agli USA di entrare in Asia Centrale sembrava inevitabile (e anche utile). Mosca e Pechino diedero il lasciapassare (consapevoli anche di non avere molte altre alternative). Progressivamente, però, la politica americana è diventata più audace (leggi: arrogante), mentre la posizione americana si è progressivamente erosa. La guerra in Iraq prima, il sostegno alla Georgia e all’Ucraina dopo. Lo scudo missilistico in Europa, la politica spesso provocatoria sulla questione di Taiwan, la retorica democratizzante portata, con totale assenza di lungimiranza, fino a Pechino hanno contribuito ad allontanare Cina e Russia. Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno visto la loro posizione declinare. La loro quota del prodotto mondiale è scesa, la loro efficacia militare è rimasta impantanata nelle sabbie mesopotamiche, il loro primato economico e tecnologico sfidato dalla crescita di nuove o vecchie potenze.
Il risultato di questo processo è che, nel 2009, né Russia né Cina hanno più interesse ad avere gli Stati Uniti in Asia centrale - e forti della loro ritrovata potenza, possono permettersi di sollevare numerose obiezioni. La Cina sa che gli idrocarburi centrasiatici saranno sempre più importanti per la sua crescita economica. La Russia non vuole che attraverso quegli stessi idrocarburi la sua posizione di quasi monopsonio verso l’Europa venga intaccata. Attraverso il controllo dell’Afghanistan passa dunque la posizione futura dei due Paesi. Non potendo sabotare direttamente la missione in Afghanistan, Cina e Russia possono però abilmente lavorare per renderla difficile, in modo da favorire un progressivo abbandono da parte degli Stati Uniti dell’Asia Centrale, o certamente così da far loro raggiungere obiettivi davvero, davvero minimi.
La Lotta al Terrorismo: Al-Qaeda e PakistanIl secondo problema che rende la missione in Afghanistan una sfida quasi impossibile è legato al nemico. Al-Qaeda, i talebani e chi li sostiene. Proprio come durante la Guerra Fredda, per motivi sia ideologici che di consenso interno, si preferì a lungo considerare i nemici come un fronte unico, unito e compatto, così nella guerra al terrorismo si è a lungo deciso di non considerare le differenze tra i vari gruppi e individui e così offrire un unico pacchetto: appunto la guerra al terrorismo. Di sicuro ciò serve a fini interni: troppi dettagli confondono l’opinione pubblica e rendono più difficile il sostegno a politiche pluriennali di sicurezza nazionale. Ma questa politica erga omnes ha anche i suoi lati negativi. Essa non permette infatti di sfruttare la cosiddetta wedge strategy: cioè far leva sulle differenze e i dissidi interni al fronte nemico in modo da isolarne la frangia più pericolosa.
Nel caso particolare dell’Afghanistan, l’errore più grande è stato quello di approcciare talebani e al-Qaeda come un blocco unico. I talebani non hanno lanciato l’11 settembre: hanno dato ospitalità e forse connivenza ad al-Qaeda ma alla fine erano soltanto degli afghani che volevano una società particolarmente arcaica e ortodossa nel loro Paese. Questi erano radicati nel territorio, lo conoscevano, avevano amicizie e legami tribali. Non erano stati eletti, ma come in tutte le dittature vale la vecchia regola: senza un minimo consenso, nessuna dittatura può sopravvivere.
Invece di allearsi con i talebani, o per lo meno con le numerose frange che al loro interno erano disposte ad un accordo politico, gli Stati Uniti hanno preferito dare loro la caccia, come se fossero membri di Al-Qaeda. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: come già detto, mese dopo mese, i talebani hanno riconquistato le loro posizioni e l’operazione in Afghanistan, come ricorda il Gen. Petraeus (che pare sottoscrivere la nostra analisi) è lungi dall’ottenere anche solo un parziale successo.
La differenza tra al-Qaeda e talebani ci riporta ad un altra grande contraddizione della guerra in Afghanistan: il Pakistan. Per anni, gli Stati Uniti lanciavano strali a favore della democrazia e simultaneamente sostenevano politicamente, economicamente e militarmente Musharraf, non certo il prodotto più raffinato della democrazia liberale. La discrasia tra parole e azioni, insieme ad una non insignificante dose di ottusità, ha portato Musharraf fuori dal potere e poi alle elezioni in Pakistan. Presto gli americani hanno scoperto come le democrazie non necessariamente abbiano le stesse vedute. Da quando Musharraf è caduto, il Pakistan è diventato sempre più insofferente della politica americana in Afghanistan mentre, al suo interno, gli scontri e le divisioni non hanno smesso di crescere, ponendo crescenti dubbi sulla capacità del Governo di gestire la sicurezza interna.
Il punto attuale è abbastanza drammatico: non solo l’Afghanistan non è pacificato, ma il grande rischio è che ora a cadere nel baratro sia il Pakistan, con le sue arme nucleari. Con una politica più comprensiva verso i talebani (assolutamente non differente dalla surge di Petraeus in Iraq, che ha avuto successo grazie alla cooperazione iraniana e sunnita), le vicende afghane sarebbero completamente diverse e il Pakistan non sarebbe nell’attuale disperata situazione. Purtroppo, il tempo utile è stato perso, Al-Qaeda si è rafforzata in Afghanistan ed è riuscita a ramificarsi ancora meglio in Pakistan. La lotta al terrorismo sarà dunque ancora più complicata, negli anni a venire.
Alleati in inaffidabili: la NATO e il suo contributoL’ulteriore tassello che complica la missione Enduring Freedom e la missione ISAF riguarda il rapporto degli Stati Uniti con l’Europa e in particolare verso la NATO. Conviene ricapitolare brevemente l’andamento dei fatti. L’Operazione Enduring Freedom fu guidata dagli USA con il supporto, minimo, di inglesi e australiani. Nonostante la NATO, per la prima volta nella storia, avesse invocato il famoso articolo 5, quello che prescrive la reciproca difesa, gli Stati Uniti preferirono declinare l’offerta di aiuto che giungeva dall’Europa. Memori dei problemi che il comando condiviso NATO aveva portato alle operazioni in Serbia, gli USA preferirono andare da soli. Difficile dar loro torto. Il problema è che, come spesso è successo nella storia della politica estera americana, Washington si è presto accorta di non essere in grado di fare tutto da sola in Afghanistan - anche perché ad un certo punto decise di dirottare i suoi sforzi verso l’Iraq. Il coinvolgimento NATO fu dunque inevitabile.
Il problema è che l’Afghanistan non pone una minaccia all’Europa. Nessun Paese Europeo sente la propria sicurezza a rischio per via dell’andamento dell’Operazione ISAF. Il risultato, per nulla sorprendente, è che nessun Paese Europeo ha dato anima e corpo per l’Afghanistan. Anche in questo caso: come dar loro torto? Se perfino gli Stati Uniti preferivano concentrarsi altrove (l’Iraq), perché mai i Paesi europei avrebbero dovuto fornire uomini e mezzi per una missione che né avevano iniziato, né avevano finora avuto modo di influenzare e, soprattutto, che neppure avrebbe mai dato loro sensibili vantaggi materiali?
Il fatto che sia Germania che Francia abbiano già detto di non voler mandare nuovi uomini in Afghanistan è di per sé abbastanza indicativo - con buona pace della speranza dei democratici americani che speravano, con l’arrivo di Obama, in una maggiore cooperazione da parte dell’Europa.
La guerra in Afghanistan è una guerra americana. La NATO vi è stata tirata dentro con forza. Lentamente, i Paesi NATO si stanno defilando, perché in Afghanistan i loro interessi sono minimi. Prima Washington capirà questo semplice dato, prima riuscirà ad elaborare una strategia efficace. Il problema è che la cultura americana fa fatica a concepire gli interessi americani come distaccati da quelli dell’umanità - da qui deriva la retorica universalistica e provvidenzialistica che ha sempre caratterizzato la politica estera USA. Pensare dunque che a Washington possano accettare e riconoscere l’assenza di interessi strategici europei in Afghanistan sembra davvero difficile.
Logistica… quella sconosciuta.L’ultima questione che rende l’avventura afghana un sogno impossibile è la logistica, la geografia, a cui gli altri tre fattori non sono estranei. L’Afghanistan è situato nel bel mezzo dell’Asia Centrale. E’ circondato da Paesi poco sviluppati, autocratici e dotati di notevoli risorse energetiche. Per arrivare in Afghanistan, non ci sono molte strade. Basti dire che, fino al 2005, gli elicotteri americani venivano portati in loco da una compagnia russa, l’unica dotata di velivoli grandi abbastanza per trasportarli. Non è necessario dire che la compagnia russa passava da Ovest, e dunque i mezzi americani partivano dall’Europa. Se la compagnia fosse fallita o se la Russia non avesse più concesso il proprio spazio aereo, gli Americani non avrebbero più avuto i loro Apache in Afghanistan. Le altre due rotte usate per sostenere l’Operazione Enduring Freedom erano rappresentate dal Pakistan e dal Kyrgizstan. Il Pakistan, come abbiamo detto, è minato da una feroce lotta intestina, a cui al-Qaeda non è esterna. Due settimane fa un ponte essenziale per la logistica NATO, a 15 km da Peshawar, è stato distrutto. Forse non casualmente. Il Kyrgizstan ha annunciato la scorsa settimana di non voler più ospitare la base americana che si trova all’interno dei suoi confini. Proprio come fece l’Uzbekistan nel 2005, ora il Kyrgizstan ritiene più allettanti le offerte russe (e il neutrale compiacimento cinese: è infatti singolare che il Tajikistan, offrendosi di sostituire il Kyrgizstan, abbia già detto di concedere il suo spazio solo per supporto non-militare).
Ciò complica notevolmente tutta la strategia. Il Gen. Petraeus sta formulando una nuova dottrina da applicare al Paese: il rischio è di non poterla attuarla per incapacità logistica di raggiungerlo. Per sostenere la missione Enduring Freedom e l’operazione NATO ISAF è quindi necessario fare affidamento, per la logistica, sulla Russia (che, come il Tajikistan, concede il suo spazio solo per supporto civile), sulla Cina (che ha più di un interesse a tenere fuori dall’Asia centrale gli USA) e sull’Iran. Forse non è un caso che proprio negli ultimi giorni, Tehran abbia mostrato una scarsa disponibilità al dialogo con gli Stati Uniti. La sua posizione negoziale si è rinvigorita nel giro di ore - difficile aspettarsi un comportamento differente.
ConclusioniPriva del sostegno delle altre Grandi Potenze regionali, sprovvista di supporto logistico, avversata da un nemico subdolo e sofisticato, e schiacciata da interessi politici, economici e strategici differenti, la missione in Afghanistan sembra oggi essere soggetta a sfide molto più grandi di quelle che comunemente vengono percepite.
Si era andati in Afghanistan per portare la democrazia. Ora speriamo di riuscire a dare un minimo di sicurezza.

Eluana Englaro: Il no del Pres. Napolitano, la tosse di Eluana e una segnalazione molto grave...

6 Febbraio 2009
Notte di domande a "La Quiete"

Quella tosse squassa le prime coscienze...

Mettiamoci nei suoi panni: un viaggio allucinato
e allucinante. Di notte, su unambulanza, lui e lei
da soli, costretti dallo spazio angusto a una vicinanza
che non era mai avvenuta prima, per ore uno in compagnia
dellaltro, muti in due silen­zi diversi. Vicini, terribilmente
vicini. Si so­no incontrati così, Eluana e il dottor Amato
De Monte, e lui ne è uscito «devastato»: per laspetto
di Eluana si è detto e ha fat­to intuire lui stesso,
ma senza spiegarsi mai troppo, lasciando vaghi i contorni
della sua «devastazione» o forse per qualcosaltro
che in quel viaggio gli ha ingombrato la­nima come
un fastidio sottile e insistente, che lui ha voluto scacciare
ma ogni tanto ancora gli torna? Va, lambulanza, incrocia
gocce di acqua e neve e i fari di altre vite viaggianti nella notte,
ignare di quel carico di vita tra­sportato a morire, mentre Eluana
dorme, perché questo fa di notte, da molti anni. Avrà vegliato,
invece, il dottor De Monte, e quante volte avrà guardato quel
sonno forse un po agitato dalla mancanza di un letto, sempre
lo stesso da quindici anni, del tepore di una stanza, dei rumori
e de­gli odori sempre uguali e rassicuranti, della carezza frequente
di una suora? Poi è arrivata lalba e un cancello si è inghiottito Eluana,
nessuno lha più vista se non i volontari e il medico, ancora lui,
taciturno con i giornalisti, scuro in volto, sempre frettoloso,
anche la sera quando si allon­tana pedalando sulla bicicletta
per le strade di Udine.

«Eluana è morta diciassette anni fa», ave­va detto in quellalba
di martedì scorso, la­sciando con sollievo lambulanza e quella
strana compagna di viaggio che laveva de­vastato, lui, medico
anestesista e rianima­tore che chissà quante ne deve aver viste
in vita sua... Ma dopo una notte ne segue sempre unaltra,
e un altro confronto con Eluana, che morta non è e quindi
si agita... Passa la prima notte, la seconda andrà me­glio
si dice il medico ma così non è, per­ché Eluana non
pare più la stessa, poche ore fuori casa e qualcosa è già
cambiato. Tossisce, Eluana. Tossisce?

Sì, tossisce, e di una tosse che squassa i suoi (forti) polmoni
ma forse di più ludito e le coscienze di chi lascolta e non sa
che fare. Tossisce, si scuo­te, quasi si strozza e intanto, proprio
come farebbe ciascuno di noi, tende e tirarsi su, cerca aria,
solleva le spalle ma non riesce. Dove sono quelle mani che
a Lecco sape­vano sempre cosa fare? Perché non accorre
chi immediatamente compiva quel pic­colo gesto che dava
sollievo? Eluana tossi­sce sempre più, una tosse che accenna
ad essere ribellione di un corpo, che è richie­sta, che è grido.
Una tosse che, beffarda, sembra fare il verso a chi dice 'Eluana
è morta diciassette anni fa': no, un morto non si agita nel letto
sconosciuto. Gli infermieri-volontari provano di tutto,
ma appartengono alléquipe di De Monte, conoscono
a memoria il protocollo per far­la morire, che ne sanno
ora dei piccoli ge­sti che sono propri di una vita, di quella
vita? Come si gestisce una «morta» che fa i capricci
e nel solo modo che conosce pe­sta i piedi? Dovevano
essere devastati an­che loro, laltra notte, se alla fine
si decidono a fare il fatidico numero di Lecco e con nuova
umiltà chiedono al medico cu­rante di Eluana: come facevate
a farla stare bene?

Il dottore deve aver provato a spie­gare come mai
in quindici anni non era stato necessario aspirare
il catarro (lincu­bo dei disabili come lei), avrà indicato
al collega le mosse da fare, ma il resto non poteva
spiegarlo: accarezzatela, osservate il suo respiro
e ascoltate il battito del suo cuore si erano tanto
raccomandati da Lecco quella notte lasciandola partire
per Udine , sono i tre elementi che vi porte­ranno
ad amarla... Ma questo nel proto­collo non sta scritto
e nessuno lo può in­segnare. Questo raccontano
tra i sussurri dalla «Quiete», la casa di riposo in cui
la notte è passata agitata un po per tutti. Inutile invece
chiedere conferme alla cli­nica di Lecco: medici e suore
hanno giu­rato silenzio e quella è gente che ha una
sola parola. Tacciono e pregano. Ma a Udine avevano
giurato sul protocollo di morte, mentre quella tosse
di vita «devasta» già le prime coscienze.

Lucia Bellaspiga

http://www.avvenire.it/

Convegno sul Testamento biologico: Un confronto tra mondi diversi - Intervento di Sua Eccellenza Mons. Fisichella...

Incontro tenutosi il giorno 17/11/2008 presso la Sala del Refettorio della Camera dei Deputati. Tavola Rotonda sul dibattuto tema Il Testamento Biologico...

LASCIATE VIVERE ELUANA ENGLARO...

Grazie a tutti gli italiani che sono venuti a Udine, a pregare, con coraggio, sfidando l'omertà e la paura di troppi che preferiscono la morte alla vita...

Prohibición del gobierno italiano...

El Ministerio de Sanidad italiano envió ayer una circular a todas las regiones en la que prohíbe a cualquier centro medico público o privado que se interrumpa la alimentación a pacientes en estado vegetativo, lo que impide así ejecutar la sentencia que autorizó desconectar a Eluana Englaro, la mujer de 37 años que lleva 16 en coma. Sus familiares pensaban hacerlo en los próximos días.
El ministro, Maurizio Sacconi, advierte de que interrumpir la nutrición e hidratación de las personas en estado vegetativo "no es legal" tanto para las estructuras públicas como privadas.www.diariomadrid.eu

La Justicia italiana autoriza la muerte de Eluana Englaro...

Sentencia histórica en Italia. El Tribunal Supremo de este país ha autorizado que se suprima la alimentación asistida a una joven que lleva 16 años en coma irreversible.
Se trata de Eluana Englaro, de 37 años. En 1992, un accidente de tráfico la condenó al coma y desde entonces su familia ha mantenido una dura batalla legal para que su hija pudiera morir. A partir de ahora no recibirá ni comida ni líquidos y en las próximas dos semanas morirá por inanición. La sentencia podría marcar jurisprudencia en Italia...

Battaglia per la vita di Eluana Englaro...

E' un momento molto grave e molto triste. Con queste parole il presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, ha commentato il caso di Eluana Englaro e ciò che si considera una "deriva eutanasica" che potrebbe porre termine alla vita di questa donna di 37 anni in coma vegetativo dal 1992, quando rimase vittima di un incidente stradale. Il padre di Eluana ha intrapreso una lunga battaglia con la giustizia per ottenere lautorizzazione a sospendere lalimentazione e idratazione che mantengono in vita sua figlia. Di fronte a questa decisione, la Conferenza episcopale italiana insieme a numerose organizzazioni cattoliche di tutto il mondo hanno levato la propria voce chiedendo di lasciar vivere Eluana. Dopo alterne vicende giudiziarie il 3 febbraio Eluana è stata trasferita da una casa di cura a Lecco a una clinica di Udine dove le verrà rimosso il sondino che lalimenta e la idrata, suscitando le reazioni da parte dei vescovi italiani e di numerose associazioni pro vita. Intanto in diverse diocesi dItalia sono state organizzate delle veglie di preghiera per Eluana. Da parte sua, monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, ha dichiarato: Faccio appello alla coscienza di tutti perché quanti hanno chiaro di essere al cospetto di una persona vivente non esitino a volerne e ad esigerne la tutela, mentre quanti dubitano ancora abbiano la sapienza di astenersi da qualsiasi decisione irreparabile.

Eluana Englaro - Non uccidetela!!!

La triste vicenda di Eluana Englaro...

ITALIA-CINA

ITALIA-CINA
PER L'ALLEANZA, LA COOPERAZIONE, L'AMICIZIA E LA COLLABORAZIONE TRA' LA REPUBBLICA ITALIANA E LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE!!!