Corriere della sera: Piacevano al regime il suo patriottismo, la vocazione pedagogica e lo spirito solidaristicoGentile, Balbo, Rocco, Bottai: tutti i fascisti tentarono di arruolarloÈ probabile che in nessun altro periodo della storia d’ Italia ci si sia tanto richiamati a Mazzini come durante il Ventennio fascista, quando il fondatore della Giovine Italia (morto cinquant’ anni esatti prima della marcia su Roma) divenne oggetto di innumerevoli citazioni in libri, articoli, discorsi, fino al punto d’ essere considerato una sorta di precursore del regime di Mussolini. A ricordare una vicenda del genere, nota soltanto o quasi agli storici di professione, è ora un bel saggio di Paolo Benedetti sugli Annali della Fondazione Ugo La Malfa, intitolato Mazzini in «camicia nera. Un titolo all’ apparenza curioso, ma in realtà per nulla privo di fondamento. Originariamente, come ricorda Benedetti, il primo fascismo era nato grazie all’ apporto di ampie frange repubblicane, soprattutto nelle aree dove maggiore era la presenza del Pri, cioè in Romagna e nelle Marche. Se nel 1919 l’ allora repubblicano Pietro Nenni, dopo essere stato tra i fondatori del Fascio di combattimento di Bologna, se ne distaccò rapidamente, non così accadde in molti altri casi. Ma mazziniani erano anche quei fascisti che provenivano dal sindacalismo rivoluzionario, i quali ritenevano di trovare in Mazzini una forma di conciliazione tra patriottismo e socialismo analoga alla loro. Studiamo Mazzini: così si intitolava l’ articolo che uno di costoro, Sergio Panunzio, aveva pubblicato nel 1917 sul Popolo d’ Italia, il quotidiano fondato da Mussolini dopo la svolta interventista, che riprendeva non a caso una vecchia testata mazziniana. Mazziniani erano poi, in un modo o nell’ altro, esponenti di spicco del regime come Giuseppe Bottai, Dino Grandi o Italo Balbo, il quale ultimo si era laureato con una tesi su Il pensiero economico e sociale di Mazzini. Alla metà degli anni Venti Delio Cantimori, futuro storico marxista e allora giovane intellettuale fascista, si era iscritto al Pnf - come confesserà poi - «immaginando che questo avrebbe fatto la rivoluzione repubblicana, sindacale, nazionale di Corridoni (il sindacalista rivoluzionario morto sul Carso nel 1915) e di Mazzini». Se un po’ tutto il fascismo di sinistra era mazziniano, è anche vero che un esponente del versante più chiaramente autoritario del regime come il guardasigilli Alfredo Rocco non mancava di collocare anche lui Mazzini tra i precursori dell’ Italia mussoliniana. Quanto alla interpretazione che del fascismo diede Giovanni Gentile, certamente il più autorevole teorico del regime, in essa il riferimento a Mazzini svolgeva un ruolo fondamentale, come si può verificare già dall’ indice dei nomi dei due volumi che raccolgono i suoi scritti e discorsi politici del Ventennio: il nome che vi ricorre più di frequente, dopo Mussolini, è quello di Mazzini. Riguardo allo stesso Duce, non fu casuale che per vent’ anni citasse il fondatore della Giovine Italia con molta frequenza: se aveva scoperto Mazzini tardi, durante la prima guerra mondiale, è anche vero che da socialista, come ha osservato Pierre Milza, era «egli stesso il prodotto di una cultura politica che mescolava la tradizione mazziniana e libertaria, fortemente radicata in Romagna, con i principi di un socialismo intransigente». Certo, nelle citazioni di parte fascista venivano espunti aspetti non secondari del pensiero mazziniano, a cominciare dalla sua impronta umanitaria e, almeno in senso lato, liberale; tuttavia, se si trattava di una lettura unilaterale, non può dirsi che si trattasse anche di una lettura del tutto arbitraria. Attraverso il richiamo a Mazzini il fascismo intendeva affermare l’ importanza che l’idea di nazione e di patria aveva effettivamente avuto nella nascita del movimento delle camicie nere; o la centralità di una concezione della politica che molto puntava sull’ educazione e sulla pedagogia di massa come strumenti per creare un «uomo nuovo». Era sempre attraverso i richiami a Mazzini che il fascismo sosteneva di aver risolto un problema che datava dal Risorgimento, l’ estraneità delle masse popolari rispetto allo Stato, un’ estraneità - si affermava - cui finalmente Mussolini aveva posto fine. Lo stesso corporativismo, esaltato come originale soluzione ai problemi sociali del mondo contemporaneo, pareva ai fascisti che si collegasse strettamente alla particolare concezione solidaristica di Mazzini, il quale, contro Marx, aveva difeso con decisione la collaborazione tra le classi. Non fu un caso, insomma, se il fascismo nel 1925 dichiarò la casa di Mazzini monumento nazionale o se nella grande esposizione di Roma dell’ E42, che la guerra impedì di realizzare, era prevista una sala dedicata a Mazzini. A rendere ancora più presente quest’ ultimo nell’ Italia tra le due guerre stava poi il fatto che una parte dell’antifascismo, soprattutto quello che faceva capo a Carlo Rosselli e a Giustizia e Libertà, si richiamasse al rivoluzionario genovese. Appunto Rosselli, come ricorda Benedetti, scrisse nel 1931 a uno studioso inglese: «Agiamo nello spirito di Mazzini, e sentiamo profondamente la continuità ideale fra la lotta dei nostri antenati per la libertà e quella di oggi». Nel 1944-45, la situazione si fece in un certo senso ancora più ingarbugliata. Il fascismo repubblicano di Salò intensificò naturalmente i richiami a Mazzini: ad esempio la data del giuramento della Guardia nazionale repubblicana venne fissata il 9 febbraio, giorno della proclamazione, quasi un secolo prima, della Repubblica romana che aveva avuto alla sua testa il «triumviro» Mazzini.
Fonte: www.ladestra.info
Nessun commento:
Posta un commento