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martedì 19 dicembre 2023

PRIMO OMICIDIO DEL #MOSTRODIFIRENZE - 22 AGOSTO 1968 - BARBARA LOCCI E ANTONIO LO BIANCO

 LASTRA A SIGNA - LOCALITA' SANT'ARCANGELO DI LECORE

Antonio Lo Bianco e Barbara Locci (21 agosto 1968)
Antonio Lo Bianco e Barbara Locci
Stefano Mele, giudicato responsabile del delitto nei tre gradi di giudizio
Natale Mele, detto "Natalino", 
figlio di Barbara Locci

La notte di mercoledì 21 agosto 1968, all'interno di una Alfa Romeo Giulietta bianca posteggiata presso una strada sterrata vicino al cimitero di Signa, vengono assassinati Antonio Lo Bianco, muratore originario di Palermo di 29 anni, sposato e padre di tre figli, e Barbara Locci, casalinga di 32 anni, originaria di Villasalto, in provincia di Cagliari, entrambi residenti a Lastra a Signa;[18] i due erano amanti; la donna era sposata con Stefano Mele, un manovale sardo emigrato in Toscana alcuni anni prima. Quella sera i due si erano recati al cinema di Signa per vedere, stando ad alcune fonti, il film giapponese Nuda per un pugno di eroi;[19] il gestore del cinema li riconobbe, successivamente, dalle foto pubblicate sui giornali; egli escluse, però, la presenza del figlio della donna, che aveva sei anni, in quanto, considerato il film proiettato, non lo avrebbe fatto entrare. Sostenne, infine, che dopo l'entrata della coppia al cinema entrò soltanto un altro uomo del quale, però, non ricordava la fisionomia.[20] Secondo ulteriori fonti, una cassiera del cinematografo vide invece la Locci con in braccio il figlio semi-addormentato all'uscita del cinema.[21] A serata conclusa, i due si erano poi appartati in macchina. Sul sedile posteriore dormiva Natale "Natalino" Mele, di 6 anni, figlio di Barbara Locci e Stefano Mele. L'assassino, secondo gli inquirenti il marito di Barbara Locci, si avvicina all'auto ferma e spara complessivamente otto colpi da distanza ravvicinata: quattro colpiscono la donna e quattro l'uomo. Verranno recuperati cinque bossoli di cartucce calibro 22 Long Rifle Winchester con la lettera "H" punzonata sul fondello.

Intorno alle due del mattino del 22 agosto, il bambino suona alla porta di un casolare sito in via del Vingone 154, a oltre due chilometri di distanza da dove era parcheggiata l'automobile. Il proprietario, De Felice, sveglio per via del figlio malato che ha chiesto dell'acqua, si affaccia immediatamente alla finestra, e davanti alla porta vede il bambino che scorgendolo a sua volta gli dice: "Aprimi la porta perché ho sonno, ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c'è la mi' mamma e lo zio che sono morti in macchina".[22] Dopo averlo soccorso, l'uomo gli chiede chiarimenti e il piccolo stentatamente riferisce altri particolari sul suo arrivo fin lì: "Era buio, tutte le piante si muovevano, non c'era nessuno. Avevo tanta paura. Per farmi coraggio ho detto le preghiere, ho cominciato a cantare "La Tramontana"... La mamma è morta, è morto anche lo zio. Il babbo è a casa malato".[22] Invece secondo un'altra versione fu proprio l'assassino a indicare lui la direzione del casolare e a cantargli La tramontana per tranquillizzarlo. I Carabinieri, chiamati mezz'ora dopo da De Felice, si mettono alla ricerca dell'auto portandosi dietro il bambino. Intorno alle tre del mattino l'auto viene ritrovata grazie anche all'indicatore di direzione dell'auto rimasto acceso, nella strada che si trova su via di Castelletti, a 100 metri dal bivio per Comeana, in una zona abitualmente frequentata da coppie in cerca di intimità.[23]

Le indagini conducono al marito della donna, Stefano Mele, sospettato di aver commesso il delitto per gelosia il quale prima negò ogni addebito, poi accusò gli amanti della moglie (Salvatore e Francesco Vinci) e poi li scagionò, alla fine, il 23 agosto, dopo 12 ore di interrogatorio[24], confessò di essere lui il colpevole. Durante il sopralluogo effettuato quello stesso giorno, l'uomo risultò però totalmente incapace di maneggiare un'arma e confuse il finestrino dal cui esterno partirono i colpi; tuttavia dimostrò di conoscere tre particolari che poteva sapere solo avendo assistito alla scena del delitto, ossia il numero di colpi sparati (8), l'indicatore di direzione ancora acceso della vettura e la mancanza della scarpa sinistra dal piede di Lo Bianco. Il figlio, dopo aver raccontato di non aver sentito nulla, alla fine ammise di aver visto il padre.[4][25][26][27][28]

Nel 1970 Mele fu condannato a 14 anni di carcere.[4] La pena tiene conto del fatto che l'uomo venne riconosciuto parzialmente incapace di intendere e di volere. Gli vennero inoltre inflitti due anni di reclusione per calunnia contro i fratelli Vinci.[29] Durante il processo, Giuseppe Barranca, cognato di Antonio Lo Bianco, collega di lavoro di Mele e anch'egli amante della Locci, raccontò che la donna, pochissimi giorni prima del delitto, si era rifiutata di uscire con lui dichiarando che "potrebbero spararci mentre siamo in macchina" e, in un'altra occasione, gli aveva raccontato che c'era un tale che la seguiva in motorino. Una deposizione analoga fu resa da Francesco Vinci, che parlò di un uomo in motorino che avrebbe pedinato la Locci durante i suoi appuntamenti con gli amanti.[30]

Fino al 1982 non vi erano collegamenti fra questo delitto e quelli che dal 1974 verranno attribuiti al Mostro di Firenze; a seguito del ritrovamento in archivio di alcuni bossoli che, dopo le analisi, risultarono identici a quelli trovati sulle altre scene dei crimini, si dedusse che la pistola usata dal mostro era la stessa usata dall'assassino che aveva ucciso Antonio Lo Bianco e Barbara Locci nell'estate del 1968[31]; nonostante questo collegamento, il duplice delitto non è mai stato attribuito comunque con certezza agli stessi autori degli altri omicidi[32].


Per approfondire: https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze

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ITALIA-CINA

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