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venerdì 6 settembre 2024

PENA DI MORTE: IN CERTI CASI, IN ESTREMI CASI, SAREBBE NECESSARIA! COME NEL CASO DI RICCARDO, 17 ANNI, CHE TRA DOMENICA 31 AGOSTO ED IL 1 SETTEMBRE 2024 HA STERMINATO TUTTA LA SUA FAMIGLIA A COLTELLATE, COMPRESO IL FRATELLINO DI 12 ANNI UCCISO NEL SONNO! PENA DI MORTE ANCHE PER MOUSSA SANGARE, IL RAPPER 31ENNE CHE HA UCCISO A CASO, PER IL SOLO PIACERE DI FARLO, LA BARISTA 33ENNE SHARON VERZENI! SE PROPRIO NON SI VUOLE LA PENA CAPITALE, ALMENO SI RIPRISTINO I LAVORI FORZATI...GLI ASSASSINI, TERRORISTI, PSICOPATICI E DELINQUENTI DI OGNI RISMA, SPACCIATORI E CRIMINALI VIOLENTI, STALKER E FEMMINICIDI, TUTTI AL GULAG!!!

Strage a Paderno Dugnano, il ragazzo che ha ucciso la famiglia è al Beccaria: «Vivo un malessere». Gli inquirenti: «Molte ferite a gola e collo, non c'è un movente!»

La strage di Paderno Dugnano e i verbali dell'interrogatorio di Riccardo, il 17enne che ha sterminato la sua famiglia: ha pianto a lungo e chi l'ha visto ha trovato un ragazzo «fragilissimo». I nonni: «Molta pena per nostro nipote!»

LA FAMIGLIA STERMINATA 

«Quando abbiamo trovato il ragazzo fuori di casa parlava in modo pacato e lucido. Così come nella sua chiamata al 118». È quanto hanno spiegato gli inquirenti nel corso della conferenza stampa sul triplice delitto di Paderno DugnanoRiccardo, 17 anni, nella notte tra sabato e domenica ha ucciso padre, madre e fratello a coltellate. I carabinieri l'hanno trovato seduto su un muretto, con soltanto i boxer addosso. «Era sereno, lucido», ha riferito il tenente Luigi Ruzza. Sereno, lucido e coperto di sangue, quello dei suoi familiari appena massacrati. «Molte ferite a gola e collo per tutti e tre», ha riferito la procuratrice facente funzione dei minori Sabrina Ditaranto. Che ha descritto la famiglia come «più che normale, direi una famiglia molto felice». All'inizio il ragazzo ha detto di aver ucciso solo il padre, attribuendo al genitore gli omicidi della madre e del fratello. Nel pomeriggio, dopo poco più di 12 ore, la piena confessione dei tre delitti. Gli viene contestata la premeditazione, altre aggravanti sono il rapporto di parentela e la minore età di una delle vittime. «Da un punto di vista giudiziario non abbiamo un movente tecnicamente inteso - ha detto  Ditaranto-. Da un punto di vista sociologico le indagini sono ancora aperte. Il ragazzo ha colpito intorno alle 2 di notte. Poche ore prima c’era stata la festa di compleanno del papà ed è possibile che i festeggiamenti abbiano acuito un malessere, i festeggiamenti sono sempre un momento critico per chi sta soffrendo. Ma anche lui non si dà una spiegazione. Lui ha parlato di un malessere ed era un pensiero che aveva da qualche giorno. E di un senso di estraneità, non solo rispetto alla famiglia ma rispetto al mondo. Sa che non si torna indietro, in questo è sembrato molto lucido. Ha capito che questo è irreversibile». Il ragazzo ha riferito che «ci pensava da qualche giorno» a uccidere genitori e fratello. La procuratrice facente funzione ha messo l'accento sulla «solitudine» provata da molti giovani con cui viene a contatto. «In linea generale c’è più solitudine tra i giovani. Il perché è la grande domanda di questo caso - ha detto Ditaranto -. I giovani manifestano un malessere importante soprattutto per gli aspetti che riguardano la socialità, è in aumento. Noi possiamo fare molto poco per loro. Per esempio, non possono rivolgersi da soli a un supporto psicologico, occorre che lo faccia un adulto». Riccardo ha pianto a lungo e chi l'ha visto nelle ore dell'interrogatorio ha trovato un ragazzo «fragilissimo». Il 17enne, che era assistito nell'interrogatorio di domenica dall'avvocato Giorgio Conti e che è difeso dalla legale Chiara Roveda, si trova in un'ala del Beccaria di Milano (il carcere minorile che è stato teatro di una rivolta sabato notte) in attesa dell'udienza di convalida, che dovrebbe tenersi tra martedì e mercoledì. E ha - ora sì - un sostegno psicologico, secondo le modalità previste dalla legge. La procuratrice facente funzione ha messo l'accento sulla «solitudine» provata da molti giovani con cui viene a contatto. «In linea generale c’è più solitudine tra i giovani. Il perché è la grande domanda di questo caso - ha detto Ditaranto -. I giovani manifestano un malessere importante soprattutto per gli aspetti che riguardano la socialità, è in aumento. Noi possiamo fare molto poco per loro. Per esempio, non possono rivolgersi da soli a un supporto psicologico, occorre che lo faccia un adulto». Riccardo ha pianto a lungo e chi l'ha visto nelle ore dell'interrogatorio ha trovato un ragazzo «fragilissimo». Il 17enne, che era assistito nell'interrogatorio di domenica dall'avvocato Giorgio Conti e che è difeso dalla legale Chiara Roveda, si trova in un'ala del Beccaria di Milano (il carcere minorile che è stato teatro di una rivolta sabato notte) in attesa dell'udienza di convalida, che dovrebbe tenersi tra martedì e mercoledì. E ha - ora sì - un sostegno psicologico, secondo le modalità previste dalla legge. Riccardo ha ucciso i familiari uno dopo l’altro. È sceso a prendere il coltello in cucina e ha colpito. Come ha potuto sopraffarli tutti? «Una vittima dormiva, le altre due si sono risvegliate di colpo in un incubo», ha spiegato Ditaranto. Lorenzo, 12 anni compiuti il 17 agosto, dormiva nel letto a fianco al suo. Colpito da molti fendenti, il ragazzino si è svegliato e ha gridato. La madre Daniela A., 48 anni, ha sentito i rumori dalla camera a fianco, ha attraversato il piccolo corridoio e appena entrata in stanza è stata colpita e si è accasciata. Infine papà Fabio C., 51 anni festeggiati proprio sabato sera. Sente le urla e si precipita per capire cosa stia succedendo, vede il figlio minore in un lago di sangue e cerca di soccorrerlo. Riccardo ha il coltello in pugno, e uccide anche lui. Poi Riccardo chiama il 112. Sono le 2 di notte. Dice che papà ha ammazzato suo fratello e la mamma. Racconta che lui ha preso il coltello da terra e l’ha colpito, che l’ha ucciso. L’operatore del 112 lo tiene al telefono, gli dice di uscire subito di casa per aspettare i soccorsi in strada. I carabinieri di Paderno Dugnano, una manciata di chilometri a nord di Milano, lo trovano davanti al cancelletto del civico 33 di via Anzio. Riccardo è in piedi, pieno di sangue. In mano ha ancora il coltelloRiccardo, che compirà 18 anni tra poche settimane, era un po’ taciturno ma non più del solito, senza dare nessun segnale di malessere. Con i carabinieri prova a ricostruire: «Papà li ha uccisi, poi ha lasciato il coltello sul pavimento. Io l’ho preso e l’ho colpito». Dice di non essere stato aggredito e sul corpo non ha segni di difesaLa sua versione si spegne quando è ormai giorno. I carabinieri del Reparto operativo di Milano, guidati dal colonnello Antonio Coppola, lavorano per ore su allarmi e telecamere per escludere, oltre ogni dubbio, la presenza di estranei nella villetta. Ma è un’ipotesi a cui nessuno crede veramente. Alle due di pomeriggio il 17enne, ormai formalmente indagato per omicidio, si confida con il legale d’ufficio e confessa. «L'interrogatorio inizia con la sua confessione. Appena gli viene chiesto di dare la sua versione alla presenza del difensore, lui ritratta e si professa autore di tutti e tre degli omicidi, dettagliando successione e modalità», ha spiegato Ditaranto. «Non è stato un interrogatorio aggressivo in cui è stato necessario scavare a fondo per trovare la verità. Il ragazzo iniziava a rendersi conto della realtà e della gravità di quanto commesso e, alla presenza di un difensore, ha ritrattato la prima versione confessando i tre omicidi». Racconta la sequenza dell’orrore, dice di aver colpito per primo il fratello Lorenzo, poi i genitori. «Non c’è un perché. Mi sentivo un corpo estraneo in famiglia, con gli amici. Ero oppresso, mi sentivo solo in mezzo agli altri». Da quanto è stato riferito, uno degli aspetti che si dovranno approfondire, attraverso consulenze e il lavoro di esperti, non solo dal punto di vista difensivo, ma anche da parte della Procura e del Tribunale per i minorenni, è proprio il tema della «personalità», dal punto di vista psicologico e psichiatrico, del ragazzo. Per cercare di comprendere proprio quel «malessere» psicologico di cui ha parlato nell'interrogatorio con la confessione. Davanti ad inquirenti e investigatori, ha mostrato tutto il suo pentimento, piangendo e sfogandosi a lungo. Non ha avuto mai, stando a quanto riferito, atteggiamenti in qualche modo spavaldi, ma è apparso sempre molto fragile. Pare che Riccardo non avesse mai mostrato in passato particolari problematiche psicologiche. Non aveva espresso alcun disagio particolare nei giorni precedenti, o durante la festa di compleanno del padre alla quale aveva partecipato proprio la sera prima. «Ultimamente sentiva musica molto triste - ha detto Ditaranto - e, contrariamente a una carriera scolastica brillante, aveva preso una materia a settembre, matematica. Ma anche questo particolare, a suo dire, non sarebbe stato prevalente nel suo disagio generale». Per capirlo meglio, oltre ai colloqui psicologici previsti dall'ordinamento penale per i minorenni, gli investigatori scaveranno tra i suoi dispositivi elettronici, i suoi giochi e le sue chat. I nonni del 17enne hanno manifestato «molta pena e compassione per lui». Da quanto si è saputo, si sarebbero anche detti disponibili ad incontrarlo, anche se questo non sarà possibile prima dell'udienza di convalida dell'arresto. Gli stessi inquirenti hanno spiegato che «la famiglia sta facendo quadrato attorno a lui» e hanno chiarito che il ragazzo, dopo la prima versione, si è deciso a confessare anche dopo aver parlato con «familiari e col suo legale».

Fonte: https://milano.corriere.it/

Paderno Dugnano, 17enne uccide tutta la famiglia: padre, madre e fratello di 12 anni.

Un triplice omicidio familiare è avvenuto a Paderno Dugnano, in provincia di Milano, dove un ragazzo di 17 anni ha ucciso i suoi genitori e il fratellino di 12 anni. Le vittime, il padre, la madre e il figlio più piccolo, sono state trovate nella loro abitazione con ferite da arma da taglio. Inizialmente, il giovane aveva raccontato agli inquirenti di essersi svegliato nella notte dopo aver sentito le urla della madre e del fratellino, colpiti a morte dal padre. Secondo la sua versione iniziale, il ragazzo avrebbe poi reagito uccidendo il padre con lo stesso coltello. Ha chiamato il 112 dicendo: “Ho ucciso mio papà, venite”. Tuttavia, questa versione è crollata durante il lungo interrogatorio, poiché gli investigatori hanno trovato alcune incongruenze nella sua storia e hanno accertato che il 17enne non presentava segni di colluttazione. Dopo un pressing investigativo, il ragazzo ha confessato di aver ucciso tutti e tre i familiari, senza il coinvolgimento di altre persone. Le indagini dei carabinieri hanno confermato che non vi erano segni di intrusioni esterne e che la scena del crimine non mostrava tracce di estranei. La sera prima del delitto, la famiglia aveva celebrato il 51° compleanno del padre con una festa a cui avevano partecipato alcuni parenti. Le vittime sono state trovate nella camera da letto al piano superiore della villetta: il corpo del fratellino, colpito da numerose coltellate, è stato trovato sul suo letto; la madre era distesa a terra e il padre su una sedia. Secondo le ricostruzioni, il bambino di 12 anni sarebbe stato la prima vittima dell’aggressione, come indicato dalla gravità delle ferite riportate. Dopo il delitto, il ragazzo è stato arrestato e sarà processato per omicidio. Gli amici del 17enne sono sconvolti dall’accaduto, descrivendolo come un “ragazzo tranquillo, studioso e sportivo”, e affermano che in casa non c’erano dissidi particolari o problemi di natura familiare. Secondo le testimonianze, il giovane non faceva uso di droghe ed era sempre stato considerato “pulitissimo” da chi lo conosceva. Un uomo, vicino alla famiglia, ha riferito di aver visto un coltello insanguinato sotto un’auto vicino alla casa, che potrebbe essere stato l’arma del delitto. La comunità è in shock per la tragedia, e restano molti interrogativi sul movente che ha spinto il ragazzo a compiere un gesto così estremo.

Paderno Dugnano, 17enne uccide tutta la famiglia: padre, madre e fratello di 12 anni


A sinistra nella fotografia, Moussa Sangare, il killer reo confesso di Sharon Verzeni (a destra nella fotografia), nel videoclip della canzone "Scusa" di Izi

L'ha incrociata prima da davanti. Moussa Sangare, 30enne che ha confessato di avere ucciso Sharon Verzeni, ha ricostruito attentamente, nell’interrogatorio di convalida davanti al gip Raffaella Mascarino, quello che è successo la sera del 30 luglio. La donna non aveva la borsa; portava gli occhiali. «Avrei detto che avesse i capelli biondi; indossava jeans e aveva le cuffiette nelle orecchie. A quel punto l’ho seguita da dietro, l’ho toccata sulla spalla con la mano sinistra e le ho detto: “Scusa per quello che sta per accadere», ha riferito Moussa Sangare. «Lei ha tolto le cuffiette quando si è sentita toccare. Ha sentito la frase. Ho preso il coltello. La prima coltellata l’ho data al petto e il coltello è rimbalzato. Lei stava scappando, sono sceso dalla bici, l’ho rincorsa e l’ho colpita alla schiena più volte, tre o quattro».

TUTTA LA BELLEZZA DI SHARON VERZENI
Nell’appartamento dove Moussa Sangare trascorreva la sua esistenza allo sbando i carabinieri hanno trovato una sagoma con sembianze umane, usata come bersaglio per allenarsi col coltello. Nel decreto di fermo, disposto dalla procuratrice di Bergamo, Maria Cristina Rota, e dal pm Emanuele Marchisio, viene evidenziato il pericolo di fuga e di reiterazione del reato: il 31enne che ha confessato di aver ucciso Sharon Verzeni avrebbe potuto colpire ancora. Viene contestata la premeditazione (oltre all’aggravante dei futili motivi) perché è uscito di casa "portando con sé 4 coltelli", con l’obiettivo di uccidere. "Ho sentito l’impulso di accoltellare qualcuno – ha spiegato ai carabinieri –. Non l’avevo mai vista prima, ho avuto un raptus e l’ho colpita senza un motivo particolare. Mi dispiace per quello che ho fatto". Le indagini che hanno portato al fermo dell’uomo sono partite da "meno di un’ombra", la sagoma di una persona in bici ripresa nei pressi di via Castegnate, a Terno d’Isola, dove un mese fa la barista di 33 anni uscita di casa per una passeggiata è stata uccisa con 4 coltellate, la prima al petto e le altre tre alla schiena. I carabinieri di Bergamo, guidati dal comandante del Reparto operativo, Riccardo Ponzone, hanno ascoltato centinaia di testimoni e hanno analizzato le riprese di circa 80 telecamere a Terno e nei paesi attorno, 15 terabyte di dati al setaccio. Le testimonianze di due uomini originari del Marocco, le uniche persone presenti quella sera nel luogo del delitto che si sono presentate spontaneamente ai carabinieri, si sono rivelate decisive. Hanno fornito una descrizione di quell’uomo, che non conoscevano e che avevano visto sfrecciare in bici. Un sommario identikit nelle mani degli investigatori, che analizzando le telecamere sono riusciti a tracciare la sua fuga verso Chignolo d’Isola, lo stesso paese dove il 26 febbraio 2011 fu scoperto il cadavere di Yara Gambirasio. Dalle immagini si è arrivati al nome di un sospetto, Moussa Sangare, nato in Italia da una famiglia originaria del Mali. Un 31enne senza un lavoro fisso, che sognava di sfondare con la musica ma la cui vita era uscita da tempo dai binari. Le liti con madre e sorella, che una volta aveva anche minacciato col coltello. Era stato denunciato e indagato a piede libero per maltrattamenti. Tempo fa avrebbe anche cercato di dare fuoco alla casa. Non era seguito da uno psichiatra, nessuno aveva colto i segnali di una violenza che è esplosa. Sangare è stato individuato a Medolago la notte tra mercoledì e giovedì e anche alla luce della sua "manifesta instabilità", come emerge da un’informativa del Ros, avvicinato e accompagnato in caserma per essere ascoltato. "Quella sera non ero a Terno", ha spiegato. Poi, messo di fronte alle contraddizioni del racconto e al riconoscimento dei testimoni, è crollato ed è scoppiato in lacrime: "L’ho uccisa io". Ha confessato, con lucidità, la sequenza di quella notte, terminata con l’assassinio di una donna scelta "a caso" che, come ha evidenziato la procuratrice Rota, "si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato". Non sembra emergere un coinvolgimento in due delitti irrisolti nella Bergamasca (i femminicidi di Gianna Del Gaudio e Daniela Roveri) ma, per fugare ogni dubbio, la procura disporrà la comparazione del Dna. Quella notte Sangare ha preso quattro coltelli dal ceppo nella cucina di casa e, in bici, ha raggiunto Terno, a 5 chilometri di distanza, dove le telecamere lo riprendono alle 00.37. In paese minaccia due ragazzini, non ancora identificati. Poi incrocia Sharon Verzeni, fa inversione di rotta e la segue in via Castegnate. Dieci minuti prima dell’una la accoltella al civico 32, poi la fuga. Si è liberato dell’arma del delitto seppellendola nei pressi del fiume Adda a Medolago, e ha gettato nel corso d’acqua un sacchetto con i vestiti e gli altri tre coltelli, recuperato dai sommozzatori. "È verosimile che ci sia una problematica psichiatrica", spiega il suo difensore, l’avvocato Giacomo Maj. Nessun movente, solo un omicidio feroce e una violenza senza senso.

Sharon Verzeni, rendendosi conto di quello che le stava accadendo, «ha urlato chiedendo: “Perché?”, “Sei un codardo, sei un bastardo”. Poi ho ripreso la bici e velocemente mi sono allontanato». Quella sera, Sangare aveva preso un coltello dalla casa che occupava a Suisio e aveva seguito «un’onda senza sapere bene dove stavo andando». Cita i film Jarvis e UpgradePrima di Sharon, si imbatte in due 15enni rintracciati dagli investigatori e tenta di spaventarli, «per vedere come reagivano». Poi trova un uomo «abbastanza grosso» in auto, e pensa di rubargli il pc, e ancora altri due su un muretto e «un tipo che fumava». Dice che tutti erano in «zone troppo aperte, con telecamere». Ma il punto, per gli inquirenti, è un altro: Sharon era la prima donna sola che aveva incrociato, era il bersaglio più vulnerabile, più facile. «Quando mi sono avvicinato a lei, sapevo che volevo accoltellarla. Se lei mi avesse spintonato, forse sarei scappato. Appena l’ho toccata ha iniziato a tremare». Per tornare nella casa occupata, passa in mezzo ai campi «dove non c’erano telecamere». Una volta che ci arriva, «mi veniva da piangere però al tempo stesso mi sentivo libero, pensavo: “Che roba”. Sul divano ho sentito una specie di confort, come se mi fossi liberato di un peso. Il giorno dopo abbiamo fatto una grigliata con gli amici». Sangare aveva anche un foglietto di appunti su un omicidio del 2021, commesso da un nigeriano di nome Moses, che ha ucciso la moglie a coltellate. «Non so perché avessi quel biglietto, ero interessato a questa notizia. Guardo polizieschi e sono interessato a casi dove l’assassino utilizza i coltelli». Moussa Sangare è ora a San Vittore, e l’accusa di omicidio è aggravata dai futili motivi e dalla premeditazione.

Fonte: https://www.quotidiano.net/ e https://www.vanityfair.it/ 

martedì 19 dicembre 2023

SETTIMO OMICIDIO DEL #MOSTRODIFIRENZE - VICCHIO - TOSCANA (PIA RONTINI - CLAUDIO STEFANACCI) 29 LUGLIO 1984

VICCHIO, LOCALITA' BORGO SAN LORENZO - (TOSCANA)

Pia Rontini e Claudio Stefanacci (29 luglio 1984)
Claudio Stefanacci e Pia Gilda Rontini

Le vittime del penultimo delitto furono Pia Gilda Rontini, ragazza di 18 anni da poco tempo impiegata in un bar di Vicchio, e Claudio Stefanacci, studente universitario di 21 anni; i due ragazzi erano in un'auto parcheggiata in fondo a una strada sterrata trasversale della via provinciale nei pressi di Vicchio quando vennero aggrediti a colpi di pistola; dall'analisi dei corpi si è ipotizzato che il primo colpo avrebbe colpito il ragazzo che si trovava sul sedile posteriore, attraversando il finestrino della portiera destra; il ragazzo venne colpito in tutto quattro volte (di cui una alla testa) mentre la ragazza riuscì a fuggire e venne colpita prima alla schiena e poi alla fronte. L'arma era la stessa dei precedenti delitti. Successivamente il corpo della ragazza venne mutilato con l'asportazione del pube e del seno sinistro mentre sul corpo del ragazzo vennero inferte una decina di coltellate.[78][79][80][81]

Identikit dell'uomo visto da Baldo Bardazzi poche ore prima dell'omicidio del 1984

La madre del ragazzo, impensierita del ritardo, andò a cercarlo dagli amici i quali, conoscendone le abitudini, provano a cercarlo dove sapevano che si appartava in auto, scoprendo così i cadaveri;[78] anche la madre della ragazza era preoccupata per l'insolito ritardo della figlia che al momento di uscire di casa, poco dopo le 21, aveva promesso di rientrare entro un'ora essendo stanca per aver lavorato tutto il giorno.[29]

Anche in questo caso pare che la vittima femminile avesse subito molestie da parte di ignoti nei giorni precedenti al delitto. Un'amica di Pia, conosciuta durante un soggiorno di studio in Danimarca e che in seguito aveva intrattenuto con lei relazioni di corrispondenza, riferì tempo dopo di aver ricevuto una telefonata dalla giovane, pochissimo tempo prima del delitto, in cui Pia le riferiva che nel bar dove lavorava "c'erano persone poco piacevoli assieme alle quali si sentiva molto insicura".[82]

Nel marzo del 1994 vennero profanate da ignoti le tombe dei due ragazzi assassinati;[83] Renzo Rontini, padre della ragazza, si è impegnato profondamente per la ricerca della verità sul caso fino alla sua morte, avvenuta per un attacco cardiaco nel dicembre 1998.[84]





                     Per approfondire: https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze

PRIMO DELITTO DEL #MOSTRODIFIRENZE IN VIA CASTELLETTI LOCALITA' SANT'ARCANGELO DI LECORE (TOSCANA) 21- 22 AGOSTO 1968

SANT'ARCANGELO DI LECORE (TOSCANA)
PRIMO OMICIDIO DEL #MOSTRODIFIRENZE (LOCCI - LO BIANCO)

La notte di mercoledì 21 agosto 1968, all'interno di una Alfa Romeo Giulietta bianca posteggiata presso una strada sterrata vicino al cimitero di Signa, vengono assassinati Antonio Lo Bianco, muratore originario di Palermo di 29 anni, sposato e padre di tre figli, e Barbara Locci, casalinga di 32 anni, originaria di Villasalto, in provincia di Cagliari, entrambi residenti a Lastra a Signa;[18] i due erano amanti; la donna era sposata con Stefano Mele, un manovale sardo emigrato in Toscana alcuni anni prima. Quella sera i due si erano recati al cinema di Signa per vedere, stando ad alcune fonti, il film giapponese Nuda per un pugno di eroi;[19] il gestore del cinema li riconobbe, successivamente, dalle foto pubblicate sui giornali; egli escluse, però, la presenza del figlio della donna, che aveva sei anni, in quanto, considerato il film proiettato, non lo avrebbe fatto entrare. Sostenne, infine, che dopo l'entrata della coppia al cinema entrò soltanto un altro uomo del quale, però, non ricordava la fisionomia.[20] Secondo ulteriori fonti, una cassiera del cinematografo vide invece la Locci con in braccio il figlio semi-addormentato all'uscita del cinema.[21] A serata conclusa, i due si erano poi appartati in macchina. Sul sedile posteriore dormiva Natale "Natalino" Mele, di 6 anni, figlio di Barbara Locci e Stefano Mele. L'assassino, secondo gli inquirenti il marito di Barbara Locci, si avvicina all'auto ferma e spara complessivamente otto colpi da distanza ravvicinata: quattro colpiscono la donna e quattro l'uomo. Verranno recuperati cinque bossoli di cartucce calibro 22 Long Rifle Winchester con la lettera "H" punzonata sul fondello.

Intorno alle due del mattino del 22 agosto, il bambino suona alla porta di un casolare sito in via del Vingone 154, a oltre due chilometri di distanza da dove era parcheggiata l'automobile. Il proprietario, De Felice, sveglio per via del figlio malato che ha chiesto dell'acqua, si affaccia immediatamente alla finestra, e davanti alla porta vede il bambino che scorgendolo a sua volta gli dice: "Aprimi la porta perché ho sonno, ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c'è la mi' mamma e lo zio che sono morti in macchina".[22] Dopo averlo soccorso, l'uomo gli chiede chiarimenti e il piccolo stentatamente riferisce altri particolari sul suo arrivo fin lì: "Era buio, tutte le piante si muovevano, non c'era nessuno. Avevo tanta paura. Per farmi coraggio ho detto le preghiere, ho cominciato a cantare "La Tramontana"... La mamma è morta, è morto anche lo zio. Il babbo è a casa malato".[22] Invece secondo un'altra versione fu proprio l'assassino a indicare lui la direzione del casolare e a cantargli La tramontana per tranquillizzarlo. I Carabinieri, chiamati mezz'ora dopo da De Felice, si mettono alla ricerca dell'auto portandosi dietro il bambino. Intorno alle tre del mattino l'auto viene ritrovata grazie anche all'indicatore di direzione dell'auto rimasto acceso, nella strada che si trova su via di Castelletti, a 100 metri dal bivio per Comeana, in una zona abitualmente frequentata da coppie in cerca di intimità.[23]

Le indagini conducono al marito della donna, Stefano Mele, sospettato di aver commesso il delitto per gelosia il quale prima negò ogni addebito, poi accusò gli amanti della moglie (Salvatore e Francesco Vinci) e poi li scagionò, alla fine, il 23 agosto, dopo 12 ore di interrogatorio[24], confessò di essere lui il colpevole. Durante il sopralluogo effettuato quello stesso giorno, l'uomo risultò però totalmente incapace di maneggiare un'arma e confuse il finestrino dal cui esterno partirono i colpi; tuttavia dimostrò di conoscere tre particolari che poteva sapere solo avendo assistito alla scena del delitto, ossia il numero di colpi sparati (8), l'indicatore di direzione ancora acceso della vettura e la mancanza della scarpa sinistra dal piede di Lo Bianco. Il figlio, dopo aver raccontato di non aver sentito nulla, alla fine ammise di aver visto il padre.[4][25][26][27][28]

Nel 1970 Mele fu condannato a 14 anni di carcere.[4] La pena tiene conto del fatto che l'uomo venne riconosciuto parzialmente incapace di intendere e di volere. Gli vennero inoltre inflitti due anni di reclusione per calunnia contro i fratelli Vinci.[29] Durante il processo, Giuseppe Barranca, cognato di Antonio Lo Bianco, collega di lavoro di Mele e anch'egli amante della Locci, raccontò che la donna, pochissimi giorni prima del delitto, si era rifiutata di uscire con lui dichiarando che "potrebbero spararci mentre siamo in macchina" e, in un'altra occasione, gli aveva raccontato che c'era un tale che la seguiva in motorino. Una deposizione analoga fu resa da Francesco Vinci, che parlò di un uomo in motorino che avrebbe pedinato la Locci durante i suoi appuntamenti con gli amanti.[30]

Fino al 1982 non vi erano collegamenti fra questo delitto e quelli che dal 1974 verranno attribuiti al Mostro di Firenze; a seguito del ritrovamento in archivio di alcuni bossoli che, dopo le analisi, risultarono identici a quelli trovati sulle altre scene dei crimini, si dedusse che la pistola usata dal mostro era la stessa usata dall'assassino che aveva ucciso Antonio Lo Bianco e Barbara Locci nell'estate del 1968[31]; nonostante questo collegamento, il duplice delitto non è mai stato attribuito comunque con certezza agli stessi autori degli altri omicidi[32].


Per approfondire: https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze

PRIMO OMICIDIO DEL #MOSTRODIFIRENZE - 22 AGOSTO 1968 - BARBARA LOCCI E ANTONIO LO BIANCO

 LASTRA A SIGNA - LOCALITA' SANT'ARCANGELO DI LECORE

Antonio Lo Bianco e Barbara Locci (21 agosto 1968)
Antonio Lo Bianco e Barbara Locci
Stefano Mele, giudicato responsabile del delitto nei tre gradi di giudizio
Natale Mele, detto "Natalino", 
figlio di Barbara Locci

La notte di mercoledì 21 agosto 1968, all'interno di una Alfa Romeo Giulietta bianca posteggiata presso una strada sterrata vicino al cimitero di Signa, vengono assassinati Antonio Lo Bianco, muratore originario di Palermo di 29 anni, sposato e padre di tre figli, e Barbara Locci, casalinga di 32 anni, originaria di Villasalto, in provincia di Cagliari, entrambi residenti a Lastra a Signa;[18] i due erano amanti; la donna era sposata con Stefano Mele, un manovale sardo emigrato in Toscana alcuni anni prima. Quella sera i due si erano recati al cinema di Signa per vedere, stando ad alcune fonti, il film giapponese Nuda per un pugno di eroi;[19] il gestore del cinema li riconobbe, successivamente, dalle foto pubblicate sui giornali; egli escluse, però, la presenza del figlio della donna, che aveva sei anni, in quanto, considerato il film proiettato, non lo avrebbe fatto entrare. Sostenne, infine, che dopo l'entrata della coppia al cinema entrò soltanto un altro uomo del quale, però, non ricordava la fisionomia.[20] Secondo ulteriori fonti, una cassiera del cinematografo vide invece la Locci con in braccio il figlio semi-addormentato all'uscita del cinema.[21] A serata conclusa, i due si erano poi appartati in macchina. Sul sedile posteriore dormiva Natale "Natalino" Mele, di 6 anni, figlio di Barbara Locci e Stefano Mele. L'assassino, secondo gli inquirenti il marito di Barbara Locci, si avvicina all'auto ferma e spara complessivamente otto colpi da distanza ravvicinata: quattro colpiscono la donna e quattro l'uomo. Verranno recuperati cinque bossoli di cartucce calibro 22 Long Rifle Winchester con la lettera "H" punzonata sul fondello.

Intorno alle due del mattino del 22 agosto, il bambino suona alla porta di un casolare sito in via del Vingone 154, a oltre due chilometri di distanza da dove era parcheggiata l'automobile. Il proprietario, De Felice, sveglio per via del figlio malato che ha chiesto dell'acqua, si affaccia immediatamente alla finestra, e davanti alla porta vede il bambino che scorgendolo a sua volta gli dice: "Aprimi la porta perché ho sonno, ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c'è la mi' mamma e lo zio che sono morti in macchina".[22] Dopo averlo soccorso, l'uomo gli chiede chiarimenti e il piccolo stentatamente riferisce altri particolari sul suo arrivo fin lì: "Era buio, tutte le piante si muovevano, non c'era nessuno. Avevo tanta paura. Per farmi coraggio ho detto le preghiere, ho cominciato a cantare "La Tramontana"... La mamma è morta, è morto anche lo zio. Il babbo è a casa malato".[22] Invece secondo un'altra versione fu proprio l'assassino a indicare lui la direzione del casolare e a cantargli La tramontana per tranquillizzarlo. I Carabinieri, chiamati mezz'ora dopo da De Felice, si mettono alla ricerca dell'auto portandosi dietro il bambino. Intorno alle tre del mattino l'auto viene ritrovata grazie anche all'indicatore di direzione dell'auto rimasto acceso, nella strada che si trova su via di Castelletti, a 100 metri dal bivio per Comeana, in una zona abitualmente frequentata da coppie in cerca di intimità.[23]

Le indagini conducono al marito della donna, Stefano Mele, sospettato di aver commesso il delitto per gelosia il quale prima negò ogni addebito, poi accusò gli amanti della moglie (Salvatore e Francesco Vinci) e poi li scagionò, alla fine, il 23 agosto, dopo 12 ore di interrogatorio[24], confessò di essere lui il colpevole. Durante il sopralluogo effettuato quello stesso giorno, l'uomo risultò però totalmente incapace di maneggiare un'arma e confuse il finestrino dal cui esterno partirono i colpi; tuttavia dimostrò di conoscere tre particolari che poteva sapere solo avendo assistito alla scena del delitto, ossia il numero di colpi sparati (8), l'indicatore di direzione ancora acceso della vettura e la mancanza della scarpa sinistra dal piede di Lo Bianco. Il figlio, dopo aver raccontato di non aver sentito nulla, alla fine ammise di aver visto il padre.[4][25][26][27][28]

Nel 1970 Mele fu condannato a 14 anni di carcere.[4] La pena tiene conto del fatto che l'uomo venne riconosciuto parzialmente incapace di intendere e di volere. Gli vennero inoltre inflitti due anni di reclusione per calunnia contro i fratelli Vinci.[29] Durante il processo, Giuseppe Barranca, cognato di Antonio Lo Bianco, collega di lavoro di Mele e anch'egli amante della Locci, raccontò che la donna, pochissimi giorni prima del delitto, si era rifiutata di uscire con lui dichiarando che "potrebbero spararci mentre siamo in macchina" e, in un'altra occasione, gli aveva raccontato che c'era un tale che la seguiva in motorino. Una deposizione analoga fu resa da Francesco Vinci, che parlò di un uomo in motorino che avrebbe pedinato la Locci durante i suoi appuntamenti con gli amanti.[30]

Fino al 1982 non vi erano collegamenti fra questo delitto e quelli che dal 1974 verranno attribuiti al Mostro di Firenze; a seguito del ritrovamento in archivio di alcuni bossoli che, dopo le analisi, risultarono identici a quelli trovati sulle altre scene dei crimini, si dedusse che la pistola usata dal mostro era la stessa usata dall'assassino che aveva ucciso Antonio Lo Bianco e Barbara Locci nell'estate del 1968[31]; nonostante questo collegamento, il duplice delitto non è mai stato attribuito comunque con certezza agli stessi autori degli altri omicidi[32].


Per approfondire: https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze

giovedì 9 novembre 2023

Mostro di Firenze, chi è: la storia, le vittime e le verità nascoste... #mostrodifirenze


Firenze - (Toscana/Italia) - Nel 1968 in Italia si consumava il primo di una lunga serie di omicidi che terrorizzò l’intero Paese. Vicino Firenze, a Signa, vennero esplosi ben otto colpi di una calibro 22 Long Rifle, la stessa che verrà impiegata in altri 7 duplici omicidi. Quello fu solo il primo delitto del “maniaco delle coppiette” meglio conosciuto come il “mostro di Firenze”. Quello del “mostro di Firenze” fu il primo caso riconosciuto di omicidi seriali in Italia. La sua storia è tutt’oggi intricata e confusa e non è ancora stata del tutto chiarita, il caso rimane aperto. Molte furono le piste e i depistaggi. Da Pietro Pacciani, il più noto tra le persone indiziate, alla condanna dei suoi “compagni di merende”, fino alle ipotesi di possibili mandanti, di sette sataniche e tantissime altre ipotesi. Tutt’oggi l’inchiesta rimane aperta. Ecco tutto quello che c’è da sapere sul caso del “mostro!”
Il #MostrodiFirenze è il nome con cui i media italiani indicarono il “maniaco delle coppiette”, autore di sette duplici omicidi tra il 1974 e il 1985 nella provincia di Firenze. A lui fu collegato un ottavo delitto, forse il primo, ma di attribuzione incerta, commesso nel 1968. Tutti gli otto omicidi attribuiti al “mostro di Firenze” vedevamo come vittime giovani coppie appartatesi nelle campagne fiorentine. Oltre alla tipologia della vittima, gli omicidi avevano come comune denominatore l’arma: una Beretta calibro. 22 Long Rifle caricata con munizioni Winchester marcate con la lettera “H” sul fondello del bossolo. Tutte le coppie, a parte l’ultima, si trovavano in auto. Le vittime sono state spesso rivenute con ferite d’arma bianca, e in diversi casi il killer si è accanito con ferocia sul corpo delle donne, asportandone il pube. In soli due casi le donne uccise sono state mutilate del seno sinistro. Scene macabre e raccapriccianti, che terrorizzarono e perseguitarono l’Italia. I luoghi degli 8 duplici delitti portarono gli inquirenti a ipotizzare che il killer conoscesse bene il territorio e che, almeno in alcuni casi, avesse pedinato le persone che poi avrebbe ucciso. La vicenda comportò un cambiamento nelle abitudini della popolazione vicino Firenze: le coppie evitarono di appartarsi, e si aprì un dibattito se concedere o meno ai giovani di vivere la propria intimità in casa. Otto duplici omicidi, violenti e sanguinosi, segnarono profondamente Firenze e il resto d’Italia. Il primo, ricondotto solo in un secondo momento al mostro di Firenze, avvenne diversi anni prima, nel 1968, rispetto ai successivi 7, avvenuti tra il 1974-1985. Barbara Locci e Antonio Lo Bianco furono, come sospettano gli inquirenti, le prime vittime del mostro di Firenze. Il 21 agosto del 1968, intorno a mezzanotte, furono uccisi da ben 8 colpi di pistola. Si trovavano dentro un’auto, appartati in una strada vicino al cimitero di Signa, in provincia di Firenze. Entrambi sposati, lei era maritata al sardo Stefano Mele. In macchina con loro si trovava il figlio della Locci, Natalino Mele, di appena 6 anni. Il bimbo si salvò e alle due di notte busso alla porta di Francesco De Felice, chiedendo soccorso. Il primo indiziato fu il marito di lei, Mele, il quale risultò totalmente incapace di maneggiare un’arma. Cambiò versione più volte fino ad accusare altri amanti sardi della moglie, tra cui Salvatore e Francesco Vinci, per cui si parlò di “pista sarda”. Alla fine lo stesso Mele confessò e fu condannato. Eppure 15 anni dopo il caso fu riaperto e collegato ai successivi delitti compiuti dal “mostro”. Seconda coppia di vittime: Pasquale Gentilcore, 19 anni, e Stefania Pettini, 18 anni. furono uccisi il 14 settembre del 1974 a Sagginale, una frazione di Mugello. Lui fu colpito tre volte, lei cinque, e ancora viva fu accoltellata decine di volte. Nella vagina le fu infilato un tralcio di vite e le furono asportati il seno sinistro e il pube. Dalle indagini emerse che la ragazza si era confidata con un’amica di aver fatto l’incontro di una strana e insolita persona. Giovanni Foggi e Carmela De Nuccio e Stefano Baldi e Susanna Cambi: Dopo 7 anni, nel 1981 furono due i duplici omicidi. Il primo a Scandicci Giovanni Foggi, 30 anni, e la fidanzata Carmela De Nuccio, 21 anni. Furono uccisi e lai fu mutilata al pube. Fu arrestato un uomo ma fu rilasciato perché mentre era in carcere fu commesso un altro duplice omicidio: Stefano Baldi, 26 anni, e Susanna Cambi, 24 anni. Anche questa volta la ragazza fu mutilata. Anche lei aveva confessato alla madre di essere pedinata. Paolo Mainardi e Antonella Migliorini furono la quarta coppia assassinata nel giugno del 1982, a Baccaiano, frazione di Montespertoli. Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch: La quinta coppia furono due turisti tedeschi assassinati nel 1983. Entrambi maschi, uno aveva i capelli lunghi e fu preso per una donna. Claudio Stefanacci e Pia Gilda Rontini: I due fidanzati vennero uccisi nel luglio del 1984, si trovavano in auto vicino a Vicchio. Il corpo della ragazza fu accoltellato e mutilato del pube e del seno sinistro.


venerdì 8 settembre 2023

ACCADDE OGGI ESATTAMENTE 40 ANNI FA: IL 9 SETTEMBRE 1983 IL SESTO DELITTO DEL MOSTRO DI FIRENZE CHE UCCISE I DUE RAGAZZI TEDESCHI IN VACANZA, RUSCH E MAYER!

 

LA PIAZZOLA DI VIA DEI GIOGOLI

 

VILLA "LA SFACCIATA" IN VIA DEI GIOGOLI

                                                9 Settembre 1983, Giogoli: 

il fiume, l’abbandono e il mostro che uccide ancora...

VIA DEI GIOGOLI - VILLA "LA SFACCIATA"
FIRENZE (TOSCANA) - A Giogoli, a meno di un chilometro in linea d’aria dalla piazzola dove la sera del 9 Settembre 1983 due ragazzi tedeschi decisero di parcheggiare il loro pulmino Volkswagen, nasce il torrente Vingone, testimone del primo duplice omicidio collegato al mostro di Firenze. Il corso d’acqua, dopo aver bagnato per circa 13 chilometri la campagna fiorentina, attraversa Signa, scorrendo sotto a Via di Castelletti, per poi sfociare nell’Arno. E’ proprio in Via del Vingone che la signora Laura, quel venerdì 9 settembre, dall’interno della sua autovettura, nota un individuo scendere a piedi, verosimilmente da Via di Giogoli. L’uomo ha tra i 40 ed i 45 anni di età, è alto circa un metro e settanta e indossa una maglietta celeste con delle strisce rosse orizzontali, pantaloni scuri, ha capelli folti, lisci e tirati indietro. Non è la prima volta che nominiamo una maglietta a strisce. Avevamo posto l’attenzione su questo particolare anche in occasione della prima parte relativa al delitto di Baccaiano quando, Bruno e Carlo Alberto, verso le ore 22,45 del 19 giugno 1982, in concomitanza con l’ora del duplice delitto Mainardi – Migliorini, nel percorrere a bordo di una Vespa la strada provinciale, all’uscita di una curva, a circa un centinaio di metri dal luogo del delitto, si ritrovarono improvvisamente davanti ad un uomo, alto circa un metro e settanta, capelli scuri, con pantaloni chiari e con maglietta per metà a strisce scure e chiara fino al petto, che al suono del clacson, si lasciò scivolare nella cunetta laterale alla carreggiata. Ancora un uomo che cammina nella notte, ancora un cielo senza luna, ancora un torrente, ancora un abbandono, ancora un mezzo fermo in mezzo alla campagna fiorentina. Si tratta di un furgone, un camper che era arrivato a Giogoli il pomeriggio del 9 settembre 1983 dopo aver provato a fermarsi in altre piazzole, tra cui una in via degli Scopeti, ma che in più delle occasioni era stato fatto allontanare perché zone con divieto di lunga sosta. E’ una notte senza luna e due giovani tedeschi residenti a Monaco, Uwe Rush e Horst Mayer, in vacanza sulle colline fiorentine, stanno chiacchierando oppure sono sul punto di addormentarsi all’interno del veicolo, quando vengono raggiunti da almeno sette colpi di arma da fuoco. Mayer verrà ucciso sul colpo da due proiettili, uno in regione occipitale e l’altro addominale che trapassa fegato, cuore e polmone sinistro. Il terzo colpo non mortale nella regione glutea sinistra. Il corpo del ragazzo ventiquattrenne verrà rinvenuto sulla brandina da notte assolutamente composto e senza minimo segno di auto difesa. Rusch invece verrà raggiunto da quattro colpi complessivi di cui uno mortale in regione zigomatica sinistra con coinvolgimento della zona occipitale. Gli altri tre colpi non mortali sono alla mano, alla coscia ed al labbro superiore e dimostrano una volontà di difesa nei confronti dell’aggressore; il corpo del ragazzo verrà ritrovato sul fondo del camper evidenziando un tentativo di ricerca di riparo da quei colpi improvvisi che provenivano dall’esterno del furgone. E’ probabile che l’assassino abbia sparato il primo colpo mortale nei confronti di Mayer dalla fiancata destra del camper per poi spostarsi sul lato sinistro del veicolo sparando ancora due colpi su Mayer ormai deceduto. Un colpo ancora dal lato sinistro ferisce solamente Rusch ed ecco che l’aggressore si sposta ancora sul lato destro mentre il ragazzo ancora in vita cerca riparo sul fondo del camper. Spara ancora un colpo ferendo nuovamente Rusch, ma non con esito mortale. E’ questo che costringe l’assassino a salire a bordo del furgone per finire il ragazzo e poi darsi alla fuga, accompagnato dalla musica dell’autoradio rimasta accesa e che via via si fa sempre più lontana. Sarà Rolf Reinecke, un abitante di una delle dependance di Villa La Sfacciata, a scoprire i cadaveri dei due ragazzi, il giorno successivo e a quasi 24 ore dal momento della morte. Sul posto arrivano i Carabinieri che evidenziano due fori da proiettile all’altezza dei vetri della fiancata destra , due su quelli di sinistra ed uno, che ha trapassato la parte in lamiera della carrozzeria del lato sinistro. Tuti i colpi sono in entrata. I bossoli recuperati sono solamente quattro: uno all’esterno nei pressi della ruota posteriore sinistra, uno all’altezza del lato destro della cabina anteriore e due all’interno della cabina posteriore. Tutti hanno la lettera H impressa sul fondello e sono stati sparati da una calibro 22 l.r. I due sportelli della cabina di guida sono chiusi, il portellone di ingresso alla cabina posteriore semiaperto o accostato. Sul retro, all’altezza della marmitta, un’evidente macchia ematica macchia il terreno. A poca distanza dal furgone, pagine strappate dalla rivista pornografica Golden Gay, a carattere omo/bisessuale, lasciate con ogni probabilità da pochi giorni visto lo stato di conservazione non ancora alterato né dalla vegetazione né dall’umidità di settembre. Il duplice omicidio di due ragazzi entrambi di sesso maschile non rientra nelle sue abitudini, ma la firma lasciata dalla pistola e dai proiettili non lascia dubbi, il mostro di Firenze è tornato a colpire. Una domanda deve essere posta a questo punto al lettore: perché di venerdì, perché, non come di consuetudine, in un giorno prefestivo? Chiaro che la risposta non può essere certezza, ma proviamo a ragionare. Sappiamo che il giorno 8 settembre Mayer e Rusch vengono avvistati sulla piazzola degli Scopeti (combinazione eclatante per noi che sappiamo ciò che avverrà nella stessa piazzola l’8 settembre di due anni più tardi sempre ad altri due stranieri accampati), probabilmente vengono fatti allontanare da qualcuno e arrivano nella giornata del 9 a Giogoli. Qui, la testimonianza del signor Pratesi: prima dell’arrivo dei due tedeschi un uomo alto circa 170 cm, con capelli scuri tirati all’indietro ed una maglietta a strisce bianche e blu, sostava in piedi sulla piazzola, con la schiena ricurva in atteggiamento da osservatore e con lo sguardo rivolto verso il campo che collega Via di Giogoli a Via del Vingone. Durante il sopralluogo eseguito dopo il ritrovamento dei cadaveri, gli investigatori noteranno come un’altra anomalia contraddistingua questo delitto. L’assassino per la prima volta utilizza due differenti tipi di munizioni, a piombo nudo e ramati, per commettere lo stesso omicidio. I proiettili ramati, posti con ogni probabilità in cima alla pila del caricatore, vengono utilizzati qualora si voglia penetrare materiali più solidi o a maggiore distanza mentre quelli a piombo nudo sono più adatti per colpi prossimi e diretti con basse penetrazioni all’interno del materiale da raggiungere. Verranno repertate, inoltre, alcune pagine volutamente sfrangiate con una lama, della rivista Golden Gay ritrovate in ottimo stato di conservazione della carta, a pochi metri dal luogo del delitto. Ma di cosa parla in generale Golden Gay? Un tribunale segreto dichiara e riconosce alcune persone come colpevoli di pregiudizio nei confronti degli omosessuali e delega ad un gruppo di agenti segreti, i Golden Gay, di rendere giustizia alle innocenti vittime di omofobia. “I super eroi” puniscono tutti coloro che in qualche maniera si rendono colpevoli di discriminazione e al tempo stesso rivalutano la personalità delle loro vittime. Nello specifico quel numero ritrovato a Giogoli trattava di un’ingiusta persecuzione di un omosessuale accusato di omicidio. Fatto questo ragionamento e provando a tentare un’interpretazione dei fatti, tutto il materiale in nostro possesso ci porta a credere che non sia molto perseguibile la strada ufficiale che vorrebbe il mostro in errore di valutazione. Non crediamo che avesse scambiato uno dei due ragazzi per una donna, non crediamo che la rivista Golden Gay testimoni solamente la presenza abituale di guardoni, non valutiamo casuale la caratteristica delle munizioni ed il posizionamento del furgone nella piazzola degli Scopeti il giorno 8 settembre. Molto più semplice, per noi, considerare Giogoli come un atto rappresentante una sfumatura umana dell’assassino che deve e vuole colpire per riappropriarsi del proprio ruolo. Il mostro uccide e lascia una piccola confessione della sua personalità; lo fa di venerdì, non può aspettare il sabato, non può farsi sfuggire nuovamente quel furgone Volkswagen, non vuol perdere di vista quei due ragazzi stranieri. Perizie successive al delitto cercheranno ancora una volta di disegnare fisicamente un identikit del mostro basandosi su certezze, a nostro avviso, alquanto azzardate. Visto il livello da terra dei finestrini del furgone, si stabilisce che l’assassino non può avere un’altezza inferiore al metro e ottanta centimetri. Non si considera la condizione del terreno della piazzola, non si considera la distanza di eventuali alberi dal furgone, non si considerano le capacità di un uomo che sa muoversi perfettamente nei boschi e nel buio. Al di là di questo, per capire cosa accadde nei mesi successivi al duplice omicidio di Giogoli, vi consigliamo nuovamente di ritornare al racconto di Signa  ed al racconto di Villacidro. Facciamo comunque un breve riepilogo: I due ragazzi tedeschi sono morti da due giorni ed una chiamata anonima avverte i carabinieri che Antonio Vinci, figlio di Salvatore Vinci e nipote di Francesco, detiene presso la propria abitazione una gran quantità di armi. Scatta la perquisizione che non porta a nulla se non a raccogliere e verificare gli alibi del giovane Vinci per la notte in cui è stato commesso il duplice omicidio di Giogoli. Sempre l’11 settembre ricevettero una visita da parte dei carabinieri anche Salvatore e Giovanni Vinci. Alla richiesta di alibi Salvatore dichiarerà: “…Nel pomeriggio e nella serata di venerdì 9 corrente sono stato sempre in casa ad eccezione di un’uscita che ho fatto per un intervento in Via della Chiesa, 42, ciò verso le ore 16:00. (Salvatore Vinci è titolare della ditta Pronto Intervento Casa ed esegue prestazioni di vario genere presso i titolari delle abitazioni che lo contattano telefonicamente. Si tratta di manutenzioni ordinarie e straordinarie di piccola entità, n.d.a) Successivamente alle ore 19:30/20:00 ho accompagnato a Prato la signora Antonietta, la quale esegue le pulizie a casa. Da Prato sono tornato verso le 21:00 e quindi non sono più uscito. Ieri, 10 corrente, sono uscito di casa alle ore 8:00 e sono andato a prendere Antonietta…” Da verifiche effettuate successivamente si appurò che Salvatore aveva fornito come alibi quello di una prostituta di nome Luisa Meoni di cui torneremo a parlare più nel dettaglio quando arriveremo cronologicamente agli ultimi mesi del 1984. Facile è comprendere come le indagine girino attorno alla famiglia Vinci e come il duplice omicidio del 1968 venga considerato la chiave di volta dell’intera inchiesta. Francesco Vinci continua a rimanere in carcere pur essendo evidente la sua estraneità ai fatti collegati all’omicidio dei due tedeschi e di fronte all’ennesimo confronto con il giudice istruttore Rotella, che cercava di capire se esistessero legami di parentela tali da indurre qualcun altro a commettere un nuovo duplice omicidio pur di vederlo scarcerato, continua a dichiararsi innocente non capendo perché Stefano Mele insista con le proprie dichiarazioni. Nel frattempo Della Monica e Vigna firmano un mandato di cattura per Antonio Vinci che, pur essendo uscito incolume da una perquisizione domiciliare, si sarebbe fatto cogliere in flagranza di reato mentre trasportava una valigia piena di armi non denunciate. Il giovane Vinci si giustificherà dicendo che le armi non erano di sua proprietà, ma che le aveva solamente trovate casualmente ed aveva deciso di farci un po’ di soldi nel rivenderle; giustificazione accettata dalla corte che settimane più tardi lo processerà dichiarandolo estraneo ai fatti. Ma non è questo il punto, la cosa importante sta nel fatto che la procura si muove sulla pista sarda e vuol vedere le differenti reazioni dei vari protagonisti una volta reclusi in carcere; ciò che interessava agli inquirenti era mantenere agli arresti Francesco e contestualmente trovare un motivo per arrestare anche il nipote Antonio. Mentre Francesco e l’amato nipote Antonio sono entrambi reclusi, con la speranza che prima o poi cedano raccontando qualche verità, Stefano Mele, altro elemento chiave della vicenda, viene nuovamente convocato dagli inquirenti nel mese di gennaio del 1984. E’ in uno di questi confronti che Stefano Mele in buona sostanza ritratterà su Francesco Vinci ammettendo di non ricordare più nulla di quella sera del 1968. A questo punto gli inquirenti provano a cambiare strada e interrogano il fratello di Stefano Mele, Giovanni. L’interrogatorio scatta a seguito di alcune segnalazioni relative a strani comportamenti tenuti da Giovanni con alcune donne, in particolare con una tal Jolanda che riferisce ai carabinieri di come il Mele ami fare l’amore in auto nei pressi di un cimitero abbandonato, di sapere che è in possesso di un grosso coltello e di come si vanti delle grandi dimensioni del proprio pene. Il 24 gennaio fu eseguita una perquisizione a casa di Giovanni Mele, che dalla morte della sorella Antonietta condivideva con il cognato Piero Mucciarini. Furono trovate corde, riviste pornografiche, lame di varie dimensioni tra cui due bisturi e piantine delle colline fiorentine con zone contrassegnate e appunti del tipo “1 dicembre, luna piena, giorno favorevole”. Contestualmente fu sequestrato al fratello Stefano un biglietto stropicciato da lui conservato nel portafoglio con la scritta: “RIFERIMENTO DI NATALE RiguaRDO LO ZIO PIETO Che avesti FATO il nome doppo SCONTATA LA PENA come RisuLTA DA ESAME Ballistico dei colpi sparati”. Fu chiesto a Stefano Mele chi avesse scritto quel biglietto. “Il biglietto l’ha scritto mio fratello….quella notte con me erano tutti e due, mio fratello Giovanni e Piero…..E’ vero che il bambino vide il Mucciarini sul luogo del delitto….Dopo il delitto gli altri due se ne tornarono con la macchina, io invece accompagnai il bambino…” Il 25 gennaio 1984, in sede di conferenza stampa, gli inquirenti annunciarono l’imminente scarcerazione di Francesco Vinci (imminente, ma non immediata) ed il mandato di cattura per Giovanni Mele e per il senese Piero Mucciarini accusati di essere gli autori del duplice omicidio del 1968 e sospettati di tutti gli altri duplici omicidi attribuiti al mostro di Firenze. Sono in ordine il quarto e quinto “mostro” ad essere sbattuti in prima pagina e mentre il giudice Rotella dichiarava che i fiorentini avrebbero potuto dormire sonni tranquilli, dal secondo piano del tribunale di Piazza San Firenze il Procuratore Carabba lo smentiva con un invito ai giovani a stare attenti a non prendersi colpi di fresco la sera in campagna. La spaccatura tra gli uffici del Giudice Istruttore e quelli dei Sostituti Procuratori stava mostrando i primi segni di scarsa reciproca tolleranza. Le prime rotture si sarebbero trasformate in faglie non risanabili negli anni a seguire e quelle stesse crepe sarebbero divenute voragini dove far precipitare, senza alcun motivo, tutto l’impianto investigativo sulla pista sarda. Sospendiamo il racconto che è pieno inverno e con tre persone, legate al delitto del 1968, in carcere. Nella prossima puntata vi racconteremo di alcune strane morti che colpirono Firenze proprio tra il 1983 ed il 1984. Nel frattempo ci apprestiamo a fare l’ennesimo spostamento tra le colline fiorentine. Torniamo nel Mugello, dopo la prima sosta del 1974, con un viaggio lungo 10 mesi , 52 chilometri e la sensazione di essere in procinto di raccontare il momento più orrendo di tutta questa vicenda, l’apice di una follia ormai inarrestabile.

Andrea Ceccherini

(ANDREA CECCHERINI NON E' IL PERSONAGGIO DEL VIDEO)

Fonte: https://www.sienanews.it/in-evidenza/9-settembre-1983-giogoli-il-fiume-labbandono-il-mostro-che-uccide-ancora/ 

RUSCH E MAYER

IL FURGONE VOLKSWAGEN DI RUSCH-E-MAYER

LA PIAZZOLA DI VIA DEI GIOGOLI LUOGO DEL DELITTO

ITALIA-CINA

ITALIA-CINA
PER L'ALLEANZA, LA COOPERAZIONE, L'AMICIZIA E LA COLLABORAZIONE TRA' LA REPUBBLICA ITALIANA E LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE!!!