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martedì 10 febbraio 2009
Giorno della memoria 10 Febbraio 2009...
Il giorno della memoria 10 Febbraio 2009 organizzato dal Comune di Cortona in ricordo del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti (legge 20 luglio 2000,n° 211)
Russia-Germania: nuovi accordi per nucleare e gas...
Tratto da Rinascita Di Andrea Perrone La multinazionale tedesca Siemens è pronta a fare affari con le società russe nei settori del nucleare e del gas.
In tutto questo avrà il consenso del primo ministro russo, Vladimir Putin (nella foto). L’ex presidente del Cremlino ha dichiarato che la Federazione è disposta “a passare dai progetti isolati alla realizzazione di un ampio partenariato tra Siemens e la nostra società Rosatom. Le due società potranno lavorare coingiuntamente in Russia e in Germania e in Paesi terzi”. A detta del primo ministro russo: “La società tedesca contribuisce fortemente allo sviluppo degli scambi commerciali tra i due Paesi che sono aumentati del 40% nel 2008 per raggiungendo circa 60 miliardi di dollari. Il fatto che voi organizziate delle riunioni di Consiglio di amministrazione a Mosca è significativo”.
La Siemens ha deciso inoltre di realizzare con la compagnia statale russa, Gazprom, dei progetti congiunti per la produzione di gas naturale liquefatto (Gnl). Nei giorni scorsi è stato diffuso anche un comunicato del monopolista russo in cui si fa riferimento ad un incontro di lavoro a Mosca tra il presidente di Gazprom, Alexei Miller, e quello della Siemens, Peter Löscher, avvenuto martedì scorso, dove “hanno passato in rassegna i risultati della cooperazione delle due società nel 2008, la realizzazione dell’accordo di partenariato strategico e gli obiettivi per il futuro”.
Le due società è scritto ancora nel documento intendono “accrescere la loro cooperazione e realizzare nuovi progetti congiunti, soprattutto in materia di tecnologie di produzione di Gnl e di creazione di infrastrutture di manutenzione per opere energetiche”.
La collaborazione tra i due giganti è iniziata nel 1993, subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica e nel mezzo degli anni del collasso economico che ne seguirono, con la realizzazione di un progetto di telecomunicazioni e di automatizzazione dei processi tecnologici in diversi giacimenti di gas russi.
A dare manforte alla cooperazione economica con la Russia si sono aggiunti i toni concilianti del cancelliere tedesco, Angela Merkel, che ha chiesto una maggiore collaborazione con Mosca, invitando l’Unione europea a fare lo stesso nei settori dell’energia e nel quadro di un accordo di partenariato e di cooperazione.
La Merkel ha sottolineato l’importanza per l’Ue di sostenere i progetti dei gasdotti di Gazprom (Southstream e Northstream) e la partecipazione della stessa compagnia russa al progetto europeo Nabucco, che collegherà i Paesi produttori del Mar Caspio verso l’Austria, attraverso la Turchia.Intanto a Berlino il ministro per l’Energia della Federazione, Sergei Shmatko, ha dichiarato che Russia e Germania realizzeranno entro il prossimo aprile un’agenzia congiunta per l’efficienza energetica. L’ente sarà costituito da strutture bancarie e compagnie dei settori suddetti. “Abbiamo stabilito la data - ha osservato Shmatko - la compagnia dovrà essere fondata non più tardi di Aprile”.
Fonte: www.ladestra.info
Scritte inneggianti alle foibe nel giorno del ricordo, Enrico Aimi: "Inaccettabile, vigliacco e volgare!"
Modena, 10 febbraio 2009. - Scritte offensive sono state tracciate sui muri della sede di An-Pdl di Modena, in via Castellaro. «Com’è bello far le foibe da Trieste in giù», questa la scritta secondo quanto ha reso noto lo stesso coordinatore provinciale di An-Pdl di Modena, Enrico Aimi, che ha annunciato un esposto alla Procura sulla vicenda e che ha definito il gesto, compiuto nel Giorno del ricordo, «inaccettabile, vigliacco e volgare». Ferma condanna anche da parte del consigliere regionale del Pdl Andrea Leoni: "Le scritte inneggianti alle foibe apparse nei pressi della sede di Azione giovani a Modena rappresentano un gesto incivile che condanniamo fermamente’’. ’’La nostra sentita solidarietà - aggiunge il caporguppo del Pdl in Consiglio comunale - va ai rappresentanti del movimento giovanile di An Michele Barcaiolo e Roberto Ricco, rispettivamente Coordinatori regionale e provinciale dei Azione giovani. Purtroppo episodi simili, frutto di una scellerata ideologia, si ripetono costantemente nella nostra città. Nel giorno in cui si ricordano le migliaia di vittime italiane del genocidio comunista, Modena si distingue negativamente non solo per il gesto ignobile di un folle ma anche per il silenzio istituzionale dell’Amministrazione comunale che ha organizzato il minimo indispensabile, tanto per non essere accusata di non avere fatto nulla’’.
Foibe, è il giorno del ricordo: "Non dimenticare sofferenze di nessuno!"
"La memoria che coltiviamo innanzitutto è quella della dura esperienza del fascismo e delle responsabilità storiche del regime fascista, delle sue avventure di aggressione e di guerra", puntualizza Napolitano. E aggiunge: "non dimentichiamo e cancelliamo nulla, dunque: tanto meno le sofferenze inflitte alla minoranza slovena negli anni del fascismo e della guerra".
Diverse le iniziative in tutta Italia, con manifestazioni, dibattiti, convegni, proiezioni di documentari. A Roma il sindaco Gianni Alemanno, il presidente del comitato romano dell'associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Marino Micich e il presidente del Consiglio comunale Marco Pomarici hanno deposto una corona di alloro all'Altare della Patria. "Questa giornata - ha detto il sindaco - serve, da un lato per ricordare e lavorare sulla memoria condivisa, e dall'altro, per infrangere le barriere di negazionismo che ancora esistono sulla vicenda delle foibe. Ci sono ancora molti testi scolastici che non parlano di questa tragedia, c'è una ricostruzione storica che ancora salta a piè pari il dramma di tutti gli esuli. Invece noi dobbiamo ricordare questo dramma perché fa parte della nostra storia nazionale e della storia dell'Europa". Secondo Alemanno, "serve grande attenzione e grande rispetto per fare in modo che gli esuli delle foibe vengano aiutati a superare questo dramma anche dal punto di vista degli effetti economici e sociali".
A questo proposito il presidente della Camera Gianfranco Fini si è fatto promotore di un'iniziativa legislativa che mira a restituire nei documenti l'identità "italiana" agli esuli istriani, giuliani e dalmati. Fini ne parla in una risposta ad una lettera di un'esule dalmata, la signora Federica Haglich, pubblicate entrambe oggi da "Il Gazzettino". Fini rende noto di aver scritto personalmente al presidente del Consiglio e al ministro dell'Interno "affinchè possano individuare quanto prima una soluzione legislativa per poter annotare nei documenti di identità degli esuli e dei loro familiari la dizione 'italiana' anzichè 'yugoslava'".
Fonte: http://www.repubblica.it/
(10 febbraio 2009)
IL NOSTRO ESODO...
NOVA GORICA (SLOVENIA) - Il camino della morte di Crni Vrh forse custodisce il segreto che molte famiglie di Gorizia e di Trieste cercano di infrangere da oltre mezzo secolo. Non è una certezza, ma una probabilità di grado elevato. La più accreditata “cacciatrice di foibe” slovena, la storica del museo di Nova Gorica Natascia Nemec, si limita ad osservare con rigore da studiosa che “nell'ex Venezia Giulia i domobranci, gli sloveni che combattevano con i tedeschi, erano pochissimi. E si sa che diversi finirono nel camino di Gargaro”. La nostra deduzione logica è che il pozzo carsico di Monte Nero abbia inghiottito soprattutto civili rastrellati a partire dal due maggio 1945, data dell'arrivo delle truppe di Tito a Gorizia.
Natascia si occupa del problema dal 1993. Da quell'anno guida una commissione insediata dal consiglio comunale di Nova Gorica per accertare la verità. “Io sono mossa solo da un interesse di studio e penso che sia giusto far emergere quello che è accaduto”, mette le mani avanti, “per rispetto degli scomparsi, di tutti gli scomparsi”. Un'idea ancora contrastata. Fino a qualche tempo fa le arrivavano minacce telefoniche e consigli di lasciar perdere. Ieri la tempesta degli insulti e degli avvertimenti via filo si è abbattuta su Anka Pozenel, la donna che ha voluto un funerale solenne per le vittime.
La storica del museo di Nova Gorica ebbe le prime informazioni su Monte Nero quattro anni fa. “Venne da me Jakob Piuk. Il padre combatteva con i domobranci. I partigiani l'avevano preso assieme ad altre venti persone e fucilato. Da anni cercava inutilmente di sapere dove fosse il corpo, per portargli un fiore”. Anche altri in paese sapevano. “Ma non c'era neppure uno straccio di documento su quella foiba”, ricorda Natascia. Gli atti ufficiali si interrompono di colpo: “Nell'archivio centrale di stato a Lubiana le carte della polizia politica, I'Ozna, arrivano solo fino al primo maggio del 1945”. Il giorno dopo, vedi caso, le truppe jugoslave entrarono a Gorizia. “La distruzione - puntualizza Natascia - cominciò già nel '46 -'47. E io non credo che tutto sia finito nel nulla. Ritengo che molti documenti siano in Serbia. Ma gli storici serbi, miei amici, sul punto sono assolutamente vaghi, non collaborano”.
Nel grande marasma sono sopravvissuti gli elenchi dei rinchiusi nel carcere giudiziario di Gorizia dal 12 al 22 maggio, italiani, tedeschi, sloveni alleati dei tedeschi e perfino serbi monarchici, i cetnici; Una goccia nel mare: “In città furono arrestate migliaia di persone e finirono nelle caserme, nelle scuole, nelle cantine e nel Castello”, puntualizza Natascia, “L'Ozna e gli attivisti politici sloveni e italiani avevano compilato gli elenchi già nel 1944. Nelle foibe furono buttati tutti i poliziotti di Gorizia”. Con documenti attendibili la storica di Nova Gorica ha messo a punto un elenco di 901 scomparsi nell'ex provincia di Gorizia, “metà italiani e metà sloveni”. Nevenka Troha, una sua collega, ne ha accertati 660 per il territorio di Trieste.
La tragica contabilità degli svaniti nel nulla purtroppo non torna. A Gorizia il Comitato per i congiunti scomparsi ha costruito a sue spese un lapidario con 665 nomi. Molti potrebbero essere finiti nel camino carsico di Crni Vhr. La foiba era sull'unica strada che collegava Aijduscina, sede di un centro di smistamento dei prigionieri, con Lubiana. Idrija, un comune dell'interno nel cui antico castello erano state concentrate centinaia di fermati, era a pochi chilometri.
Lidia Giana, vicepresidente del comitato congiunti degli scomparsi, rabbrividisce quando le raccontiamo che secondo i paesani di Crni Vhr il gran via vai notturno di camion carichi di arrestati cominciò dopo l'8 maggio: “Le ultime notizie che abbiamo di mio padre Andrea sono del 7 sera. Era il presidente dell'Associazione commercianti. Nell'unico interrogatorio nel carcere di Gorizia gli avevano contestato di aver fatto affiggere negli uffici cartelli con la scritta: si parla solo italiano. Lui aveva spiegato che non era una sua iniziativa e che glieli avevano mandati da Roma”.
LA NAZIONE Quotidiano del 1 NOVEMBRE 1998
LA DRAMMATICA TESTIMONIANZA DI MARIJA KUKANIA CHE NEL 1945 AVEVA 10 ANNI “Di notte sentivo pianti, lamenti e spari”
Lorenzo Bianchi
CRNI VRH (Slovenia) - Marija Kukania aveva dieci anni nel 1945. Adesso abita con il marito architetto vicino a Nova Gorica, ma non ha dimenticato. La casa dei suoi è sul limitare del bosco, a poche decine di metri da quell'avvallamento che inghiottiva le persone: “Mi svegliava la luce dei fari dei camion. La prima notte ho sentito 36 spari, la seconda 38. Attutiti appena dalla distanza ci arrivavano flebili pianti, lamenti e gemiti. Mio padre era a Mathausen. Quando tornò andammo a vedere che cosa era successo. Trovò un orologio tutto schiacciato e un frammento di mandibola. Si sedette e si mise a piangere, a piangere. Nella foiba sono finite di sicuro più di cinquanta persone. Ho capito la tragedia solo quando ho origliato per caso un dialogo fra mamma e papà”.
Maria era nella folla degli oltre cinquecento sloveni che hanno depositato decine di lumini e che hanno assistito alla solenne benedizione delle vittime il 25 ottobre. Anka Puzenel, 51 anni, la donna che si è battuta per dare una sepoltura degna agli scomparsi, la ricorda come “quella donna che ha pianto tutte le sue lacrime”. Quando le è venuta l'idea del funerale signora?
“Tanti anni fa. I miei genitori mi parlavano sempre dell'accaduto. Se ne discuteva anche a scuola, ma solo fra amici fidatissimi. Era del tutto impensabile affrontare l'argomento in pubblico. C'è gente che ancora non ammette l'accaduto”.
Chi per esempio?
“I borzi, i partigiani, hanno sostenuto che nella foiba non c'è assolutamente nulla. Il presidente della sezione di Idrija dell'Associazione ex partigiani Franz Petric ha scritto al consiglio comunale per tentare di bloccare la nostra iniziativa. Ha sostenuto che avremmo dovuto chiedere la licenza municipale per costruire un monumento e che comunque prima di erigere una stele si sarebbe dovuta accertare l'identità degli scomparsi”.
Che cosa l'ha spinta a questa battaglia?
“L'umana pietà, non ho parenti scomparsi. Sono consigliere di frazione a Monte Nero, ma la politica non c'entra nulla. Sono solo una cattolica convinta. Il sindaco Samo Beuk mi ha appoggiato. Abbiamo cominciato a lavorare due anni fa. Ho trovato un mucchio di volontari. I falegnami che hanno costruito la staccionata e la croce, i muratori che hanno piantato i supporti di ferro nella roccia, l'architetto che ha disegnato il tutto... pagherò di tasca mia solo i materiali. Abbiamo scelto il 25 perché era l'ultima domenica prima della festa dei morti”.
E' stata lei a chiamare il vice primo ministro?
“Assolutamente no. E' venuto di sua iniziativa assieme al ministro della giustizia il giorno dei defunti. Ma il momento più felice della mia vita è stato una settimana prima, quando l'ausiliario Renato Podbersic e il parroco Albert Strancar hanno benedetto la foiba. E' venuta giù un acqua fitta, uno scroscio, come se il cielo volesse partecipare al pianto... Ho mandato 180 inviti. La mia amica architetto Petric Moravec ci ha fatto stampare sopra questo appello: “Partecipate a un viaggio. Per tutti gli scomparsi il viaggio è durato 53 anni”. Adesso finalmente è finito”.
LA NAZIONE Quotidiano del 1 NOVEMBRE 1998
RIEMERGE LA VERITA’ SULLA STRAGE IN SLOVENIA ‘DIMENTICATA’ PER 53 ANNI Nella foiba più di 500 vittime “Molti triestini fra i morti. A massacro concluso gettarono sabbia e pesce per coprire l’odore”
Lorenzo Bianchi
CRNI VRH (SLOVENIA) La prima neve ha steso un sudario di silenzio. In fondo al pozzo carsico di Monte Nero un'orrida casualità ha ammonticchiato terribili resti, tibie ingiallite, teschi seminascosti dal terriccio. Attorno alla foiba i fiocchi bagnati infradiciano le tracce della prima pietà umana dopo 53 anni di paura, di omertà, di vergogna, tre grandi mazzi di fiori, una corona di alloro deposta nel giorno dei defunti dal vicepresidente dei governo sloveno Marian Podovnik. Finalmente è consentito piangere e ricordare.
Anka Pozenel, la fervente cattolica di Crni Vrh che ha voluto a tutti i costi una messa funebre e una benedizione per i morti rimossi e cancellati, ha lasciato gigli rosa e crisantemi. Nessuno sa quanti siano li dentro.
Neppure Damian Lampe, l’albergatore che ha accettato di mostrarmi il buco dell'orrore fra i faggi e gli abeti di Idriski Log, una frazione di Crni Vrh. Sul fondo di un avallamento c'è una staccionta di faggio color marrone rossiccio. Scivolando nella neve fangosa siamo arrivati fin sull'orlo della foiba. Sul camino profondo sessantacinque metri ora è sospesa una grande croce di legno. E'appoggiata su un recinto di dieci lati che circonda la cavità. L'architetto di Idrija, Heda Petric Moravec, l'ha disegnata così per ricordare la corona di spine di Cristo. L'idea della croce invece è stata di una compagna di scuola di Anka che le ha riferito una voce insistente.
Damian fissa la neve, imbarazzato e pensoso: “Potrebbro esserci dentro più di cinquecento persone, ma nessuno lo sa perché il servizio segreto militare, il Vos, ha fatto sparire i documenti con precisione metodica. E' assolutamente certo che ci fossero anche italiani. La signora Mikus, che aveva una trattoria vicino al bosco, ha raccontato ai suoi parenti che si sentivano invocazioni nella vostra lingua”.
Damian Lampe è nato a Crni Vrh nel 1941. Nella sua memoria è scolpito un giorno, il primo settembre 1944: “Alle sei arrivarono i partigiani titini del IX Korpus e spararono il primo colpo dritto sul campanile della chiesa. Lì si erano appostati i partigiani bianchi, i domobranci, con un mitra. Alle 10 i rossi tagliarono i fili spinati e misero a fuoco tutto il villaggio. Non si salvò nulla”.
Crni Vrh fu “bonificata” e qualche paesano, forse un autista, indicò al Vos la foiba. I camions carichi di prigionieri cominciarono ad arrivare solo dopo l'occupazione di Trieste, caduta in mani jugoslave l'8 maggio del 1945. Damian riferisce i racconti che per anni hanno riempito le case del paese, storie sussurrate solo fra le mura domestiche perché erano coperte da un ferreo “tabù” pubblico: “La gente arrestata a Trieste e in altri luoghi veniva concentrata a Vipacco, a Postumia e a Logatec. Il cervello delle operazioni era il servizio di sicurezza militare. I prigionieri li portavano legati l'uno all'altro con il filo di ferro, gli sparavano e li buttavano nel pozzo. Erano partigiani contrari ai titini, ma anche italiani. Pensi che mia madre Vittoria ebbe paura che ci fosse finito anche mio papà. L'avevano arrestato a Trieste e portato a Vipacco su indicazione del commissario politico del paese”. Toni Lampe non era un oppositore politico. Aveva avuto solo la disavventura di litigare furiosamente con l'uomo del partito.
La foiba di Idriski Log diventò un segreto impenetrabile. “Dalla foiba usciva un odore insopportabile. Ci buttarono dentro pesce per confondere le idee, mine e un alto strato di ghiaia”, spiega Damian. E soprattutto la gente del posto si cucì la bocca. Meglio non rischiare. La consegna si è sgretolata nel 1992 quando è franata la Jugoslavia. La Slovenia ha conquistato l'indipendenza. E Anka Puzenel, una commercialista fegatosa, si è liberata del macigno che la opprimeva. Dopo anni ha potuto chiedere un funerale e un prete per quei poveri morti. L'ha celebrato il 25 ottobre il vescovo vicario di Capodistria Renato Podbersic. I bimbetti della scuola elementare hanno piantato due piccole croci di legno sotto gli abeti e i faggi.
LA NAZIONE Quotidiano del 1 NOVEMBRE 1998
LA TESTIMONIANZA DI UMBERTO BERTUCCIOLI, ALL'EPOCA GUARDAFRONTIERA IN ZONA “Altri massacri lungo la ferrovia per Fiume”
Davide Eusebi
“Scavate, lì ci sono le foibe” Bertuccioli, 78 anni appena compiuti, ex guardafrontiera del Gaf il corpo creato da Mussolini per sorvegliare i confini nazionali, ha un incubo ricorrente, tornato a galla dopo la notizia del ritrovamento di fosse comuni a Monte Nero “La ferrovia che porta a Fiume potrebbe nascondere decine di altre foibe, in cui sono finiti migliaia di civili italiani innocenti, massacrati dai comunisti dopo l'8 settembre”
Ad avvalorare la tesi che potrebbe far lievitare il già tragico bilancio di morti innocenti durante l’ultima guerra, sono alcuni particolari che Bertuccioli ricorda e denuncia: “A Villa del Nevoso in provincia di Fiume, dove stavo svolgendo servizio militare, dopo l'8 settembre i partigiani rastrellarono tutte le donne e gli uomini italiani della zona. Li portarono in una fabbrichetta e, dopo avere invitato me ed altri militari a riconoscere nel gruppo qualche presunto criminale, cosa che non facemmo, annunciarono loro che il giorno dopo sarebbero stati fucilati. Ma né io né i miei compagni soldati sentimmo sparare un colpo e da allora abbiamo vissuto col sospetto, ma è qualcosa di più, che quella gente fosse stata lanciata nel vuoto da viva nelle foibe circostanti, forse per non dare alla gente del posto il sospetto della fucilazione di massa, e lì trovò la morte. Difficile, molto difficile pensare che tutti siano stati trasportati nella grande fossa in fondo al pozzo carsico del Monte Nero, una località troppo lontana da Villa del Nevoso”.
Bertuccioli, di guardia col suo cannoncino lungo la ferrovia, saprebbe dove andare a scavare: “Abbiamo vissuto quei momenti in presa diretta. Tutti hanno sempre saputo che ogni paesino che era attraversato dalla ferrovia che portava da Postumia a Fiume, era stato saccheggiato e rastrellato. Ogni paese, ogni zona carsica limitrofa a questi centri abitati potrebbe nascondere una buca di cadaveri. Così come il fiume sotterraneo Timavo, che si infila sotto il monte di Villa del Nevoso, potrebbe essere stato il cimitero per molti. Tutti hanno sempre saputo, ma nessuno ha mai ficcato il naso in queste zone e adesso è arrivato il momento di farlo”.
Immagini che sono scolpite nella mente dell'ex soldato: “Io stesso ho visto molte foibe, con i miei occhi. Ho letto la disperazione nei civili italiani condannati senza motivo: ferrovieri, impiegati, perfino la maestra dell'asilo, tutti ammucchiati come bestie e portati a morire negli strapiombi carsici. Ricordo il viso di una ragazza bellissima, un'impiegata della previdenza sociale, compagna di un mio amico soldato. Ci guardava mentre i partigiani ci invitavano a riconoscere quei poveretti, cosa che non facemmo. Non la rivedemmo più. Ci salvammo cantando bandiera rossa e poi scappammo, purtroppo, verso i campi di concentramento tedeschi”.
LA NAZIONE Quotidiano del 1 NOVEMBRE 1998
Fonte: http://www.italia-rsi.org/
Istria, Fiume e Dalmazia: L' ESODO ISTRIANO...
In ricordo dei 350.000 Istriani Fiumani e Dalmati...
Le Foibe.
Sta ritornando alla ribalta il tragico e luttuoso evento che nel dopoguerra ha colpito le popolazioni giuliane: le foibe. Poiché da molte parti su questo evento vengono inscenate speculazioni il più delle volte a carattere nazionalistico e poiché la stampa in genere ha effettuato sistematicamente un’opera di disinformazione, abbiamo pensato che per i giovani che seguono questa rubrica fosse necessario indicare come si sono svolti gli avvenimenti ed il contesto storico - politico che fu alla loro base.
Negli ultimi tempi, in una concomitanza certamente sospetta, è tornato alla ribalta il triste e tanto dibattuto problema delle foibe che aveva avvelenato nell’immediato dopoguerra gli animi delle popolazioni delle due etnie che compongono la Venezia Giulia e di quella triestina in particolare.
Il fatto strano della riesumazione da parte dei mass-media di questo angoscioso problema è dovuto indubbiamente alla sua concomitanza con l’apertura del processo al criminale nazista Priebke.
Infatti la stampa nazionale, scritta e parlata, riscoprendo le foibe (definite dal Devoto-Oli come depressioni carsiche, tipo di doline, sul fondo delle quali s'aprono delle spaccature che assorbono le acque) ed avallando, tranne lodevoli e consolanti eccezioni, una campagna reinnescata da destra dal processo Priebke (perché oltre al nazista non si processano anche gli “infoibatori”? si chiedevano i giornali conservatori ignorando i processi istruiti 50 anni fa) si è lanciata a tutto regime in una serie di denuncie e spiegazioni, cariche di notizie infondate o nei casi migliori largamente distorte e faziose.
Sono raffiorate in varie forme le equazioni Resistenza = Foibe, Jugoslavi = nazisti, aggrediti ed aggressori la stessa cosa, italiani = vittime incolpevoli.
Questo “battage” giornalistico svolto con una totale mancanza di informazioni, una totale ignoranza, e quel che è peggio, sposato a forme di superficialità che non dovrebbero essere consentite a giornalisti professionisti ed a un'incredibile noncuranza che ha portato costoro a propinare notizie, supposizioni, travisare fatti, anche quando sarebbe bastata una semplice telefonata all’Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste per ottenere dati e informazioni circostanziate.
Da moltissimi anni, direi dagli anni ‘50 in poi, quell’Istituto storico si occupa tra le diverse cose, anche delle foibe.
Sono stati effettuati studi, analisi, ricerche di testimonianze, ricerche anagrafiche per documentare il numero delle vittime, consulenze per la Presidenza del Consiglio, per il Ministero degli Esteri, ecc. Ma di tutto questo lavoro il giornalista impegnato a scrivere il suo articolo non ha mai voluto tenerne conto. Interessava il fatto sensazionale, moltiplicare per un certo fattore il numero delle vittime (20.000, 30.000, meglio se 50.000, fa più effetto!), considerarle ovviamente tutte vittime italiane in modo da creare un sentimento antislavo e dare corpo alla propaganda della destra nazionalistica.
Nei vari articoli sono apparsi, quali monumenti dell’abissale ignoranza dei nostri giornalisti, anche errori storico-geografici.
Ad esempio: “In Istria le foibe sparse dal fiume Carso alla Dalmazia” quasi esistesse un ponte tra questo INESISTENTE fiume e l’area dalmatica ed ignorando che l’altipiano carsico fra Trieste e Gorizia fu anche il principale e cruento teatro di guerra tra l’Italia e l’Austria-Ungheria nel primo conflitto mondiale.
La gran parte delle informazioni e documenti che l’Istituto invia da anni a vari giornali e riviste italiane e straniere, anche nelle attuali circostanze sono state spesso cestinate. Non si spiegherebbe altrimenti come, con il “Corriere della Sera” in testa, i vari organi di stampa, radio e televisioni parlassero e scrivessero che tutte le vittime (almeno 10.000 secondo alcuni organi, da 20 a 50 mila per altri) sono state infoibate e infoibate vive, che mai un processo è stato istruito contro gli infoibatori e che gli eccidi rispondevano ad un preciso piano di “sterminio etnico” degli italiani.
Pochi sono stati i giornali che hanno tenuto conto delle ricerche e degli interventi dell’istituto storico triestino e tutti di una chiara tendenza progressista (“la Repubblica”, “L’Espresso”, “Il Manifesto”, “Liberazione”). Adesso è sperabile che anche la RAI abbia preso coscienza delle stupidaggini che durante tutti questi anni ha trasmesso e si decida a rivolgersi a chi può fornirle documenti e testimonianze.
Circa la “tecnica” dell’infoibamento è vero invece che le vittime civili e militari sono state fucilate e gettate in foiba, che in alcuni casi - come è stato possibile documentare - furono precipitate nell’abisso non colpite o solo ferite.
E’ pure vero che la maggior parte degli arrestati, persone che sono state date per infoibate, sono stati inviati nei campi di concentramento jugoslavi dove molti perirono per malattie epidemiche, stenti o condanne a morte senza processo.
Per gli infoibatori, veri o presunti, vennero istruiti processi a Trieste nel periodo in cui era governata dagli anglo-americani (1945-1954). I processi, con le condanne comminate dalla Corte d’Assise presieduta da magistrati italiani, dall’ergastolo a pene intermedie ed assoluzioni, occuparono per anni i servizi giornalistici.
E’ falso invece lo scrivere che manchi una bibliografia sulle violenze jugoslave nella regione. Dai primi anni ‘60 ad oggi l’istituto storico ha pubblicato libri e saggi sul problema, trattato anche dagli storici triestini Elio Apih e Raoul Pupo che fanno parte entrambi della Commissione di studio Italo-slovena creata in base ad accordi tra i due governi.
A Trieste, purtroppo, le foibe sono all’ordine del giorno da più di 50 anni. Dobbiamo precisare che dagli studi dell’istituto triestino emerge in modo chiaro che non ci fu un piano di “sterminio etnico” come viene sistematicamente sbandierato dalla stampa e non solo da quella di destra. Le direttive allora (1945) emanate dal partito comunista sloveno e dal suo leader Kardelj, secondo solo a Tito per prestigio ed influenza, erano di “prelevare i reazionari e di condurli qui, qui giudicarli, là (Trieste e zone finitime) non fucilare... epurare subito, ma non sulla base della nazionalità, ma del fascismo”.
Su quest’ultima parte delle direttive del partito comunista sloveno si giocò pesante: per loro, e per i loro colleghi croati, con la parola fascismo venivano inglobati non solo i collaborazionisti del regime nazista e fascista, fossero essi italiani, sloveni o croati, ma anche tutti gli oppositori politici, nazionali, ideologici ed anche i dissenzienti del regime comunista jugoslavo che in fondo furono i bersagli più importanti.
Venne data la caccia agli uomini del CLN di Trieste, che venne definito “famigerato” e di Gorizia in quanto oppositori delle pretese annessioni jugoslave e nello stesso tempo non comunisti. Va anche detto che sia durante la guerra che a guerra finita furono perseguitati anche antifascisti e comunisti italiani di Fiume e dell’Istria.
Nel maggio 1945, durante l’occupazione jugoslava di Trieste e della regione che gravitava su di essa, questi metodi tipicamente stalinisti furono dettati anche dall’esigenza di consolidare rapidamente il potere jugoslavo nei territori occupati in vista della Conferenza della pace. Si riteneva, da parte jugoslava, che i territori sui quali essa poteva in quella sede dimostrare il possesso pacifico, senza opposizioni di carattere nazionale, le sarebbero stati assegnati - in sede di conferenza - senza alcuna difficoltà e che difficilmente il governo di un paese che sino all’altro giorno era alleato del nazismo, anche se capeggiato da un rappresentante della Resistenza, poco avrebbe potuto opporre di fronte ad uno Stato che da solo aveva resistito e cacciato le forze naziste.
Nonostante tutto, “la discriminante etnica costituisce un elemento secondario” dichiarò il prof. Diego de Castro, istriano, difensore dei diritti italiani e consigliere politico del governo italiano presso il Governo Militare Alleato a Trieste. Le foibe, disse, oltre ad essere un prodotto della barbarie seguita al 1918 “sono un fatto prevalentemente politico mirante ad eliminare i non comunisti”. Le spietate uccisioni in un solo colpo di 12.000 loro compatrioti in Slovenia, furono “il doppio o il triplo degli italiani uccisi in tutta l’area che va da Zara a Gorizia che secondo fonti angloamericane dovrebbero essere dai 4 ai 6 mila”.
A conclusioni analoghe sono pervenuti nei loro studi e ricerche il prof. Elio Apih e Raoul Pupo.
Le foibe del settembre-ottobre 1943 in Istria dopo il crollo dello stato italiano (fra le 4 e 500 persone uccise in maggioranza italiane, ma anche slovene e croate) ebbero invece alcuni aspetti diversi rispetto a quelle che seguiranno nel 1945. Quelle foibe furono una reazione, una resa dei conti, dopo un ventennio di persecuzioni di ogni tipo culminate negli anni di guerra (1940-1943) in esecuzioni collettive, in deportazioni anche di vecchi, donne e bambini e distruzioni di interi villaggi. Parliamo sempre di fatti avvenuti nei territori del regno d’Italia.
Il terrorismo fascista, scatenato nella regione ancor prima della marcia su Roma, aveva creato dove non esisteva un odio antitaliano e mai, negli animi si era sopito il rancore della minoranza slovena per l’incendio fascista dell’Hotel Balkan, avvenuto a Trieste per opera dei fascisti, per lo scioglimento dell’organizzazione culturale Cirillo e Metodio con l’incameramento delle sue proprietà, per i pestaggi di donne slovene che scendevano in città e parlavano sloveno tra di loro sui mezzi pubblici e, in tempi vicini all’inizio del conflitto, per l’archiviazione dell’inchiesta sulla sciagura mineraria avvenuta nel febbraio 1940 nel bacino carbonifero dell’Arsia che provocò 185 morti tra i minatori italiani e slavi e ben 147 feriti.
La società mineraria apparteneva all’IRI e le cause della sciagura ricadevano sulla direzione del complesso. Venne tutto messo a tacere; lo scoppio della guerra fece cadere nel dimenticatoio dell’opinione pubblica la tragedia, le sue cause, i morti ed i feriti, ma nelle popolazioni croate della zona, che dovettero piangere i loro morti senza aver ottenuto quella giustizia che faceva parte delle loro attese, sorse un rancore che non investì solo lo Stato fascista, ma lo Stato italiano che loro identificavano con lo Stato fascista.
Il motto fascista che veniva strombazzato per le contrade dell’Istria e del Carso sloveno diceva: “Chi non è fascista non è italiano”. Nel 1943 da partigiani ci sentimmo apostrofare con quel motto completamente rivoltato: “Chi è italiano è fascista”.
Immediatamente dopo il crollo dello Stato italiano, nel settembre 1943, emersero tra le improvvisate formazioni degli insorti croati, sull’onda di una rivalsa nazionalistica e sociale anche torbidi ”giustizieri” di contrasti e faide paesane ed autentici criminali.
Contro questi sistemi protestò sdegnato il comunista italiano Pino Budicin, tra i primi organizzatori della Resistenza in Istria poi torturato ed ucciso dai fascisti di Rovigno. La devastante e sanguinosa controffensiva tedesca in Istria indusse alcuni dei carcerieri a liberarsi dei prigionieri, uccidendoli.
Quello che è sempre mancato nella stampa italiana che ha trattato il tragico problema delle foibe, non si sa se per ignoranza o per malafede, è stato un serio ed approfondito esame del contesto storico-politico in cui quegli avvenimenti ebbero luogo. Non ricordo di aver mai letto negli articoli i nomi dei paesi distrutti, bruciati, dai fascisti o dalle nostre forze armate, i nomi dei numerosi Lager italiani dove vennero deportati uomini, donne e ragazzi sloveni e croati, di veder ricordato il vergognoso campo di concentramento da noi italiani istituito nell’isola di Arbe, dove di stenti e malattie sloveni e croati colà internati morirono come le mosche.
Nella “grande” stampa italiana è apparso quasi inesistente quel contesto storico, altrimenti minacciava di far franare tutto il castello che considerava gli italiani sempre “brava gente”.
Chi si è mai ricordato di citare l’occupazione della Jugoslavia ed il suo smembramento avvenuto nel 1941? Chi mai ha ricordato che da quello smembramento lo Stato italiano approfittò per crearsi le nuove province di Lubiana, Spalato, Cattaro e per ingrandire territorialmente quelle di Zara e Fiume? Chi nei suoi articoli ha ricordato l’incorporazione del Montenegro, le rappresaglie e le fucilazioni?
Si è sempre parlato delle foibe astraendo in modo assoluto dal contesto storico in cui quella tragedia vide accomunate vittime slovene, croate e soprattutto italiane.
Sia ben chiaro che questo scritto non vuole in alcun modo giustificare le violenze jugoslave (ma quanti sono gli italiani infoibati perché denunciati all’autorità jugoslava di occupazione come fascisti o collaborazionisti ed invece erano vittime di denunce per questioni futili come gelosie, vendette personali, questioni di interesse, rivalità commerciali, ecc.?), ma vuole fare storia, che significa capire e far capire a chi è interessato all’argomento su come andarono veramente le cose.
La rappresaglia.
Mi sono meravigliato nel sentirmi chiedere da un professore di storia cosa pensassi del processo all’ufficiale delle SS Priebke e sentirmi rispondere dopo avergli espresso le mie considerazioni su quel processo che l’eccidio delle Fosse Ardeatine era stata una rappresaglia perché non si erano presentati gli attentatori, come invece richiedeva il Bando appiccicato su tutti i muri di Roma. Quando gli spiegai che non esiste codificato l’istituto della rappresaglia e che nessun Bando era stato “appiccicato” sui muri delle strade romane egli rimase sbalordito. Aveva letto quelle informazioni sui giornali.
Durante l’ultimo conflitto mondiale da parte delle forze armate naziste venne fatto largo ricorso a due categorie di crimini, non codificati in alcun contesto internazionale che provocarono centinaia di migliaia di vittime, immolate sull’altare della ferocia e della brutalità dell’occupatore.
Una di queste categorie attraverso la quale le forze di occupazione naziste pensavano di domare la sete di libertà e di indipendenza delle popolazioni dei territori da loro invasi era la cosiddetta “responsabilità oggettiva” che consentì l’arresto, la fucilazione e la deportazione nei Lager o l’invio al lavoro coatto nelle industrie di guerra tedesche di centinaia di migliaia di abitanti, specie polacchi, bielorussi, ucraini e jugoslavi.
Non si salvarono [1]nemmeno i paesi occidentali, anche se la responsabilità oggettiva ebbe in proporzione minore applicazione in questi paesi sottoposti al giogo nazista.
La responsabilità oggettiva[2] consisteva nel ritenere responsabili di tutti gli scontri, uccisioni di soldati tedeschi o loro collaboratori, di azioni partigiane o attentati di vario genere, le popolazioni che vivevano in prossimità del luogo dove l’evento si era verificato[3].
Era chiaro che questa categoria, non solo teorizzata ed applicata dalle forze naziste di occupazione, ma diffusa spesso con manifesti alle popolazioni, tendeva ad incutere il terrore ed aveva lo scopo principale di recidere i legami tra le popolazioni ed i movimenti della resistenza.
Un’altra categoria di cui si è parlato molto in questi ultimi tempi (a proposito del processo Priebke) è quella della rappresaglia. Da più parti si è addirittura teorizzato il diritto di rappresaglia come se da qualche convenzione internazionale la rappresaglia fosse codificata e consentisse ad un esercito occupante di usarla attraverso l’esercizio di un presunto ed inesistente diritto.
Ricordiamo per inciso che non solo le SS, ma anche la Wehrmacht esercitò in modo indegno questo cosiddetto diritto di rappresaglia. In Jugoslava, ad esempio, il famigerato generale Boehme[4], durante la ritirata dei tedeschi sotto l’incalzare delle forze partigiane di Tito, aveva emesso delle ordinanze che seminarono un terrore di tali dimensioni da non essere per nulla inferiore a quello seminato dai terribili Einsatzgruppen delle SS operanti nei territori orientali. Come ho scritto in altra occasione le “misure espiatorie” (così vennero chiamate) a cui era costretta la popolazione serba in quel periodo che va dall’estate del 1941 all’autunno del 1944, prevedevano l’uccisione di 100 civili serbi per ogni caduto tedesco per mano dei partigiani e l’esecuzione di 50 civili per ogni soldato tedesco ferito. Il rapporto 1: 100 ed 1: 50 doveva essere rispettato dai comandi inferiori ed i plotoni di esecuzione dovevano esser forniti dalla Wehrmacht. In altre zone la rappresaglia si limitò al rapporto uno a dieci, in alcune si arrivò al rapporto di uno a cinquanta.
Uno a dieci, uno a cinquanta, uno a cento! Ma quale diritto, quale convenzione internazionale avrebbe potuto codificare un istituto del genere, così vago anche nei rapporti?
Il diritto normalmente da delle indicazioni precise; perciò nessuna Convenzione avrebbe codificato il fatto che il comandante di un reparto o di un esercito potesse con una sua ordinanza stabilire il rapporto di civili che avrebbero dovuto esser fucilati in una determinata evenienza senza che gli stessi fossero stati sottoposti a regolare processo.
La rappresaglia in sostanza non è solo un istituto sconosciuto nel diritto internazionale in quella parte che regola i rapporti tra i cittadini di un paese e le forze armate occupanti.
La rappresaglia come istituto del diritto internazionale riguarda solamente ed in modo esclusivo i rapporti tra stati NON IN GUERRA TRA DI LORO, nel senso che uno stato che riceva una offesa priva di giustificazione da un altro Stato, con il quale non esiste lo stato di guerra, può per ritorsione - quindi per rappresaglia - condurre un’azione punitiva nei confronti dello Stato dal quale ha ricevuto l’offesa.
Nel riguardare i rapporti si richiama, la norma, agli Stati, non ai cittadini di quegli stati.
Solo la scarsa documentazione e la superficialità nel trattare la questione da parte degli organi di stampa hanno convinto i cittadini, che costituiscono la cosiddetta opinione pubblica, a ritenere che questo istituto di diritto internazionale esista e che le forze di occupazione possano farlo valere.
Sempre in relazione al processo intentato all’ufficiale delle SS Eric Priebke, il 2 dicembre 1995 sul “Corriere della Sera” apparve un articolo nel quale un giornalista spiegava che la rappresaglia era legittima in quanto ammessa dalla legge internazionale di guerra (quale “legge internazionale di guerra” ? sottoscritta da quali paesi ? ratificata da quali parlamenti? In quale data ?) e che il bando relativo, quello” che annunciava la rappresaglia di dieci contro uno era affisso su tutti i muri e pubblicato su tutti i giornali”.
Si passava dalla superficialità, dall’ignoranza su questo tema specifico, alla mistificazione dei fatti. Proprio perché l’argomento dello scritto era il processo Priebke l’inesattezza era doppiamente grave: in primo luogo nessun manifesto, nessun bando venne affisso sui muri, in secondo luogo l’assassinio degli oltre 330 prigionieri delle carceri romane e di via Tasso venne tenuto segreto.
L’istituto della rappresaglia balzò agli onori delle cronache italiane per l’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Il Tribunale militare di Roma, infatti, nel 1946 condannò il col. Kappler all’ergastolo ritenendolo responsabile non dell’eccidio in sé, ma perché “aveva ecceduto violando le proporzioni”. Gli altri ufficiali vennero assolti in “quanto avevano obbedito agli ordini ricevuti”[5].
Con questa sentenza il Tribunale Militare di Roma ammise l’esistenza dell’istituto della rappresaglia nel diritto internazionale in tempo di guerra su cittadini estranei ai fatti, commettendo un errore concettuale molto grave.
L’inesistenza dell’istituto della rappresaglia, sia nella dottrina penale che nel diritto internazionale venne ampiamente dibattuta dai nostri maggiori giuristi proprio in seguito alla errata sentenza pronunciata da quel Tribunale Militare.
Mentre il bene supremo della vita dell’individuo è da considerarsi inviolabile e può essere sacrificato soltanto per una responsabilità penale e personale, venne messo in evidenza in quegli studi di diritto internazionale che esiste solo la norma inserita nell’articolo 50 della convenzione dell’Aja del 1907, recepita nel nostro ordinamento giuridico dall’articolo 65 del regio decreto 1415 dell’8 luglio 1938, la quale norma prescrive che:
“ nessuna sanzione pecuniaria o d’altra specie può essere inflitta alle popolazioni a causa di fatti individuali, salvo che esse possano esserne solidalmente responsabili”.
Come è facilmente comprensibile si tratta di sanzioni contro popolazioni coinvolte globalmente in atti che possono essere puniti con provvedimenti di carattere amministrativo come la requisizione di beni, oppure con atti quali il divieto di circolazione, oppure ancora l’obbligo di rispettare gli orari del coprifuoco, ecc.
Sempre a proposito dell’eccidio delle Fosse Argentine le stesse autorità naziste tentarono di giustificarsi, sapendo bene di aver commesso un vero e proprio delitto, affermando che era loro intenzione di essere clementi risparmiando la vita dei CONDANNATI, ma che a seguito degli attentati non avevano potuto usare clemenza ed erano state costrette ad eseguire le condanne a morte già pronunciate[6].
Si tratta di una delle tante menzogne diffuse dai nazisti in quanto le persone vittime dell’eccidio non erano mai state giudicate e condannate da nessun tribunale, né italiano, né tantomemo tedesco.
A questo proposito mi sembra importante ricordare che di fronte agli assassini compiuti dagli Einsatzgruppen in Polonia, dove Himmler richiese loro di eliminare l’“intelligentia” polacca, il comandante di un’armata tedesca, il generale Johannes Blaskowitz, si rivolse direttamente a Hitler accennando “alla grandissima apprensione che generavano arresti, fucilazioni, confische ... e pure alle preoccupazioni per la disciplina delle truppe che vivono queste cose con i propri occhi”...e rivolgeva al Hitler “la preghiera di ripristinare la legalità e soprattutto far eseguire fucilazioni SOLO IN CASO DI SENTENZE GIUDIZIARIE “.
Infatti, non solo gli italiani assassinati alle Ardeatine e quelli fucilati a Fossoli non erano stati condannati, ma nemmeno risulta che fossero stati oggetto di una indagine giudiziaria. Erano semplicemente dei cittadini di uno Stato occupato nelle mani delle forze di polizia naziste.
E’ necessario aggiungere che le esecuzioni non ebbero neanche la caratteristica della rappresaglia (in quanto chi la esercita anche illegittimamente agisce in modo aperto e clamoroso e la stessa viene pubblicizzata con manifesti e comunicati radio e stampa allo scopo di fungere da deterrente per le popolazioni alle quali si rivolge) ma vennero effettuate segretamente dimostrando così che alla base di quelle esecuzioni albergavano solo sentimenti di odio e di vendetta.
Nella realtà, contrariamente a quello che veniva messo in evidenza a Trieste dove si terrorizzava la popolazione con le impiccagioni di via Ghega (dove i passanti potevano vedere i corpi appesi alle finestre dello stabile) oppure si pubblicizzavano attraverso i giornali locali le fucilazioni del 21 settembre 1944 richiamandosi ad attentati partigiani, sia l’eccidio delle Ardeatine che le fucilazioni di Fossoli vennero tenute talmente segrete che ad esempio la popolazione genovese per la quale avvennero le fucilazioni di Fossoli non venne a sapere un bel niente.
Quindi, se fossero state effettuate per una rappresaglia mancarono completamente lo scopo. Per cui quando diciamo che le motivazioni di quegli eccidi, come di tanti altri, perpetrati dalle forze naziste in Italia, sono da ricercarsi nell’odio e nella vendetta che le animava, non siamo lontani dalla realtà in quanto non troviamo altre motivazioni plausibili.
Il Tribunale Militare di Roma nella sentenza in cui condannò il colonnello Kappler per l’eccidio delle Fosse Ardeatine assolse gli altri ufficiali partecipanti alla tragica impresa perché, cosi recitava la sentenza, “avevano obbedito agli ordini ricevuti “.
L’alto ufficiale della marina tedesca, membro dell’ufficio storico dell’esercito tedesco, testimoniando al processo intentato a Priebke ha voluto ricordare numerosissimi casi di soldati, sottufficiali ed ufficiali tedeschi che si rifiutarono, in varie parti dell’Europa occupate dalle forze armate naziste, di uccidere cittadini che non erano stati regolarmente processati e condannati da una autorità giudiziaria.
A conferma di ciò stanno le disposizioni contenute nel codice penale militare tedesco, che si basava sulla trasposizione integrale del paragrafo 47 dal vecchio codice guglielmino, il cosiddetto "Rechtstaat" (risalente a prima del 1914), il quale autorizzava i soldati a resistere e a non ubbidire ad ordini che venissero impartiti dai superiori se quegli ordini contraddicevano i codici morali e penali.
Ci sembra a questo punto, dopo aver cercato di chiarire in breve l’inesistenza di un istituto giuridico a carattere internazionale denominato “rappresaglia”, di poter affermare che l’azione delle forze di polizia naziste e della stessa Wehrmacht, culminate con stragi di popolazioni, debbono considerarsi semplicemente come azioni, dettate da istinti primordiali come l’odio e la vendetta, effettuate da chi si trovava in una posizione dominante e che chiaramente sapeva che contro di lui ben poco poteva fare la popolazione civile.
Alberto Berti
[1] Occorre tenere presente che i lavoratori coatti utilizzati dai tedeschi furono quasi 10 milioni. Qui ci si riferisce a quelli deportati in Germania in base alla responsabilità oggettiva.
[2] Una variante peggiorativa della responsabilità oggettiva fu indubbiamente l’arresto in base al decreto Nacht und Nebel (Notte e Nebbia) emanato dal Comando supremo della Wehrmacht a firma del generale Keitel.
[3] Gli arrestati appartenenti a questa categoria non vanno confusi con quelli dell’ordinanza dell’OKW denominata Nacht und Nebel (Notte e Nebbia).
[4] Il generale dell’esercito tedesco Franz Boehme nel dopoguerra venne estradato in Jugoslavia, processato ed impiccato.
[5] Per inciso i tribunali alleati in Germania comminarono parecchie condanne a morte a gente macchiatasi di particolari crimini che si difese dicendo di aver obbedito agli ordini. Ricordo Irma Grese, ad esempio.
[6] Queste giustificazioni di parte nazista riguardano sia l’eccidio delle Ardeatine che quello effettuato tra coloro che erano rinchiusi nel campo di concentramento di Fossoli (67 fucilati).
Fonte: http://www.recsando.it
Gesta Bellica: Le Foibe...
Cosa sono le Foibe?
Le foibe sono delle cavità naturali, dei pozzi, presenti sul Carso (altipiano alle spalle di Trieste e dell'Istria). Alla fine della Seconda guerra mondiale i partigiani comunisti di Tito vi gettarono (infoibarono) migliaia di persone, alcune dopo averle fucilate, alcune ancora vive, colpevoli di essere italiane o contrarie al regime comunista.
Quanti furono gli infoibati?
Purtroppo è impossibile dire quanti furono gettati nelle foibe: circa 1.000 sono state le salme esumate, ma molte cavità sono irraggiungibili, altre se ne scoprono solo adesso (60 anni dopo) rendendo impossibile un calcolo esatto dei morti. Approssimativamente si può parlare di 6.000 - 7.000 persone uccise nelle Foibe, alla quali vanno aggiunte più di 3.000 persone scomparse nei gulag (campi di concentramento) di Tito.
Chi erano gli infoibati?
Gli infoibati erano prevalentemente italiani. In generale tutti coloro che si opponevano al regime comunista titino: vi erano quindi anche sloveni e croati. Tra gli italiani vi erano ex fascisti, ma sopratutto gente comune colpevole solo di essere italiana e contro il regime comunista.
Cosa vuol dire "infoibare"
Le vittime dei titini venivano condotte, dopo atroci sevizie, nei pressi della foiba; qui gli aguzzini, non paghi dei maltrattamenti già inflitti, bloccavano i polsi e i piedi tramite filo di ferro ad ogni singola persona con l’ausilio di pinze e, successivamente, legavano gli uni agli altri sempre tramite il di ferro. I massacratori si divertivano, nella maggior parte dei casi, a sparare al primo malcapitato del gruppo che ruzzolava rovinosamente nella foiba spingendo con sé gli altri. (Il disegno è tratto da un opuscolo inglese).
Perchè ricordare?
Nel corso degli anni questi martiri sono stati vilipesi e dimenticati. La storiografia, lo Stato italiano, la politica nazionale, la scuola hanno completamente cancellato il ricordo ed ogni riferimento a chi è stato trucidato per il solo motivo di essere italiano o contro il regime comunista di Tito.
La Foiba di Basovizza
La cosiddetta "Foiba di Basovizza" è in origine un pozzo minerario: esso divenne però nel maggio del 1945 un luogo di esecuzioni sommarie per prigionieri, militari, poliziotti e civili, da parte dei partigiani comunisti di Tito, dapprima destinati ai campi d'internamento allestiti in Slovenia e successivamente giustiziati a Basovizza.
Le vittime destinate ad essere precipitate nella voragine di Basovizza, venivano prelevate nelle case di Trieste, durante i 40 giorni di occupazione jugoslava della città (dal 1 maggio 1945). A Basovizza arrivavano gli autocarri della morte con il loro carico di disgraziati. Questi, con le mani straziate dal filo di ferro e spesso avvinti fra loro a catena, venivano sospinti a gruppi verso l'orlo dell'abisso. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro. Sul fondo chi non trovava morte istantanea dopo un volo di 200 metri, continuava ad agonizzare tra gli spasmi delle ferite e le lacerazioni riportate nella caduta tra gli spuntoni di roccia. Molte vittime erano prima spogliate e seviziate.
Ma quante furono le persone gettate nella Foiba di Basovizza? Per quanto riguarda specificamente le persone fatte precipitare nella foiba di Basovizza, è stato fatto un calcolo inusuale e impressionante. Tenendo presente la profondità del pozzo prima e dopo la strage, fu rilevata la differenza di una trentina di metri. Lo spazio volumetrico conterrebbe le salme degli infoibati: oltre duemila vittime. Una cifra agghiacciante. Ma anche se fossero la metà, questa rappresenterebbe pur sempre una strage immane... e a guerra finita!
Il monumento della Foiba di Basovizza
Nel 1980, in seguito all'intervento delle associazioni combattentistiche, patriottiche e dei profughi istriani-fiumani-dalmati, il pozzo di Basovizza e la Foiba n.149 vennero riconosciute quali monumenti d'interesse nazionale. Il sito di Basovizza, sistemato dal comune di Trieste, divenne il memoriale per tutte le vittime degli eccidi del 1943 e 1945, ma anche il fulcro di polemiche per il prolungato silenzio e il mancato omaggio delle più alte cariche dello stato. Tale omaggio giunse nel 1991, anno cruciale per la dissoluzione jugoslava e dell'Unione Sovietica, quando a Basovizza si recò l'allora presidente della repubblica Francesco Cossiga, seguito due anni più tardi dal successore Oscar Luigi Scalfaro, che nel 1992 aveva dichiarato la Foiba di Basovizza "monumento nazionale".
Fonte: http://www.foibadibasovizza.it/
Metodica di infoibamento, la grande tragedia Nazionale del secondo dopo guerra...
Cosa sono le Foibe?
Le foibe sono delle cavità naturali, dei pozzi, presenti sul Carso (altipiano alle spalle di Trieste e dell'Istria). Alla fine della Seconda guerra mondiale i partigiani comunisti di Tito vi gettarono (infoibarono) migliaia di persone, alcune dopo averle fucilate, alcune ancora vive, colpevoli di essere italiane o contrarie al regime comunista.
Quanti furono gli infoibati?
Purtroppo è impossibile dire quanti furono gettati nelle foibe: circa 1.000 sono state le salme esumate, ma molte cavità sono irraggiungibili, altre se ne scoprono solo adesso (60 anni dopo) rendendo impossibile un calcolo esatto dei morti. Approssimativamente si può parlare di 6.000 - 7.000 persone uccise nelle Foibe, alla quali vanno aggiunte più di 3.000 persone scomparse nei gulag (campi di concentramento) di Tito.
Chi erano gli infoibati?
Gli infoibati erano prevalentemente italiani. In generale tutti coloro che si opponevano al regime comunista titino: vi erano quindi anche sloveni e croati. Tra gli italiani vi erano ex fascisti, ma sopratutto gente comune colpevole solo di essere italiana e contro il regime comunista.
La Foiba di Basovizza - www.foibadibasovizza.it
La cosiddetta "Foiba di Basovizza" è in origine un pozzo minerario: esso divenne però nel maggio del 1945 un luogo di esecuzioni sommarie per prigionieri, militari, poliziotti e civili, da parte dei partigiani comunisti di Tito, dapprima destinati ai campi d'internamento allestiti in Slovenia e successivamente giustiziati a Basovizza.
Le vittime destinate ad essere precipitate nella voragine di Basovizza, venivano prelevate nelle case di Trieste, durante i 40 giorni di occupazione jugoslava della città (dal 1 maggio 1945). A Basovizza arrivavano gli autocarri della morte con il loro carico di disgraziati. Questi, con le mani straziate dal filo di ferro e spesso avvinti fra loro a catena, venivano sospinti a gruppi verso l'orlo dell'abisso. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro. Sul fondo chi non trovava morte istantanea dopo un volo di 200 metri, continuava ad agonizzare tra gli spasmi delle ferite e le lacerazioni riportate nella caduta tra gli spuntoni di roccia. Molte vittime erano prima spogliate e seviziate.
Ma quante furono le persone gettate nella Foiba di Basovizza? Per quanto riguarda specificamente le persone fatte precipitare nella foiba di Basovizza, è stato fatto un calcolo inusuale e impressionante. Tenendo presente la profondità del pozzo prima e dopo la strage, fu rilevata la differenza di una trentina di metri. Lo spazio volumetrico conterrebbe le salme degli infoibati: oltre duemila vittime. Una cifra agghiacciante. Ma anche se fossero la metà, questa rappresenterebbe pur sempre una strage immane... e a guerra finita!
Il monumento della Foiba di Basovizza
Nel 1980, in seguito all'intervento delle associazioni combattentistiche, patriottiche e dei profughi istriani-fiumani-dalmati, il pozzo di Basovizza e la Foiba n.149 vennero riconosciute quali monumenti d'interesse nazionale. Il sito di Basovizza, sistemato dal comune di Trieste, divenne il memoriale per tutte le vittime degli eccidi del 1943 e 1945, ma anche il fulcro di polemiche per il prolungato silenzio e il mancato omaggio delle più alte cariche dello stato. Tale omaggio giunse nel 1991, anno cruciale per la dissoluzione jugoslava e dell'Unione Sovietica, quando a Basovizza si recò l'allora presidente della repubblica Francesco Cossiga, seguito due anni più tardi dal successore Oscar Luigi Scalfaro, che nel 1992 aveva dichiarato la Foiba di Basovizza "monumento nazionale".
Fonte: http://www.leganazionale.it
ITALIA-CINA
PER L'ALLEANZA, LA COOPERAZIONE, L'AMICIZIA E LA COLLABORAZIONE TRA' LA REPUBBLICA ITALIANA E LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE!!!