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martedì 10 febbraio 2009

IL NOSTRO ESODO...

NOVA GORICA (SLOVENIA) - Il camino della morte di Crni Vrh forse custodisce il segreto che molte famiglie di Gorizia e di Trieste cercano di infrangere da oltre mezzo secolo. Non è una certezza, ma una probabilità di grado elevato. La più accreditata “cacciatrice di foibe” slovena, la storica del museo di Nova Gorica Natascia Nemec, si limita ad osservare con rigore da studiosa che “nell'ex Venezia Giulia i domobranci, gli sloveni che combattevano con i tedeschi, erano pochissimi. E si sa che diversi finirono nel camino di Gargaro”. La nostra deduzione logica è che il pozzo carsico di Monte Nero abbia inghiottito soprattutto civili rastrellati a partire dal due maggio 1945, data dell'arrivo delle truppe di Tito a Gorizia.
Natascia si occupa del problema dal 1993. Da quell'anno guida una commissione insediata dal consiglio comunale di Nova Gorica per accertare la verità. “Io sono mossa solo da un interesse di studio e penso che sia giusto far emergere quello che è accaduto”, mette le mani avanti, “per rispetto degli scomparsi, di tutti gli scomparsi”. Un'idea ancora contrastata. Fino a qualche tempo fa le arrivavano minacce telefoniche e consigli di lasciar perdere. Ieri la tempesta degli insulti e degli avvertimenti via filo si è abbattuta su Anka Pozenel, la donna che ha voluto un funerale solenne per le vittime.
La storica del museo di Nova Gorica ebbe le prime informazioni su Monte Nero quattro anni fa. “Venne da me Jakob Piuk. Il padre combatteva con i domobranci. I partigiani l'avevano preso assieme ad altre venti persone e fucilato. Da anni cercava inutilmente di sapere dove fosse il corpo, per portargli un fiore”. Anche altri in paese sapevano. “Ma non c'era neppure uno straccio di documento su quella foiba”, ricorda Natascia. Gli atti ufficiali si interrompono di colpo: “Nell'archivio centrale di stato a Lubiana le carte della polizia politica, I'Ozna, arrivano solo fino al primo maggio del 1945”. Il giorno dopo, vedi caso, le truppe jugoslave entrarono a Gorizia. “La distruzione - puntualizza Natascia - cominciò già nel '46 -'47. E io non credo che tutto sia finito nel nulla. Ritengo che molti documenti siano in Serbia. Ma gli storici serbi, miei amici, sul punto sono assolutamente vaghi, non collaborano”.
Nel grande marasma sono sopravvissuti gli elenchi dei rinchiusi nel carcere giudiziario di Gorizia dal 12 al 22 maggio, italiani, tedeschi, sloveni alleati dei tedeschi e perfino serbi monarchici, i cetnici; Una goccia nel mare: “In città furono arrestate migliaia di persone e finirono nelle caserme, nelle scuole, nelle cantine e nel Castello”, puntualizza Natascia, “L'Ozna e gli attivisti politici sloveni e italiani avevano compilato gli elenchi già nel 1944. Nelle foibe furono buttati tutti i poliziotti di Gorizia”. Con documenti attendibili la storica di Nova Gorica ha messo a punto un elenco di 901 scomparsi nell'ex provincia di Gorizia, “metà italiani e metà sloveni”. Nevenka Troha, una sua collega, ne ha accertati 660 per il territorio di Trieste.
La tragica contabilità degli svaniti nel nulla purtroppo non torna. A Gorizia il Comitato per i congiunti scomparsi ha costruito a sue spese un lapidario con 665 nomi. Molti potrebbero essere finiti nel camino carsico di Crni Vhr. La foiba era sull'unica strada che collegava Aijduscina, sede di un centro di smistamento dei prigionieri, con Lubiana. Idrija, un comune dell'interno nel cui antico castello erano state concentrate centinaia di fermati, era a pochi chilometri.
Lidia Giana, vicepresidente del comitato congiunti degli scomparsi, rabbrividisce quando le raccontiamo che secondo i paesani di Crni Vhr il gran via vai notturno di camion carichi di arrestati cominciò dopo l'8 maggio: “Le ultime notizie che abbiamo di mio padre Andrea sono del 7 sera. Era il presidente dell'Associazione commercianti. Nell'unico interrogatorio nel carcere di Gorizia gli avevano contestato di aver fatto affiggere negli uffici cartelli con la scritta: si parla solo italiano. Lui aveva spiegato che non era una sua iniziativa e che glieli avevano mandati da Roma”.


LA NAZIONE Quotidiano del 1 NOVEMBRE 1998
LA DRAMMATICA TESTIMONIANZA DI MARIJA KUKANIA CHE NEL 1945 AVEVA 10 ANNI “Di notte sentivo pianti, lamenti e spari”
Lorenzo Bianchi


CRNI VRH (Slovenia) - Marija Kukania aveva dieci anni nel 1945. Adesso abita con il marito architetto vicino a Nova Gorica, ma non ha dimenticato. La casa dei suoi è sul limitare del bosco, a poche decine di metri da quell'avvallamento che inghiottiva le persone: “Mi svegliava la luce dei fari dei camion. La prima notte ho sentito 36 spari, la seconda 38. Attutiti appena dalla distanza ci arrivavano flebili pianti, lamenti e gemiti. Mio padre era a Mathausen. Quando tornò andammo a vedere che cosa era successo. Trovò un orologio tutto schiacciato e un frammento di mandibola. Si sedette e si mise a piangere, a piangere. Nella foiba sono finite di sicuro più di cinquanta persone. Ho capito la tragedia solo quando ho origliato per caso un dialogo fra mamma e papà”.
Maria era nella folla degli oltre cinquecento sloveni che hanno depositato decine di lumini e che hanno assistito alla solenne benedizione delle vittime il 25 ottobre. Anka Puzenel, 51 anni, la donna che si è battuta per dare una sepoltura degna agli scomparsi, la ricorda come “quella donna che ha pianto tutte le sue lacrime”. Quando le è venuta l'idea del funerale signora?
“Tanti anni fa. I miei genitori mi parlavano sempre dell'accaduto. Se ne discuteva anche a scuola, ma solo fra amici fidatissimi. Era del tutto impensabile affrontare l'argomento in pubblico. C'è gente che ancora non ammette l'accaduto”.
Chi per esempio?
“I borzi, i partigiani, hanno sostenuto che nella foiba non c'è assolutamente nulla. Il presidente della sezione di Idrija dell'Associazione ex partigiani Franz Petric ha scritto al consiglio comunale per tentare di bloccare la nostra iniziativa. Ha sostenuto che avremmo dovuto chiedere la licenza municipale per costruire un monumento e che comunque prima di erigere una stele si sarebbe dovuta accertare l'identità degli scomparsi”.
Che cosa l'ha spinta a questa battaglia?
“L'umana pietà, non ho parenti scomparsi. Sono consigliere di frazione a Monte Nero, ma la politica non c'entra nulla. Sono solo una cattolica convinta. Il sindaco Samo Beuk mi ha appoggiato. Abbiamo cominciato a lavorare due anni fa. Ho trovato un mucchio di volontari. I falegnami che hanno costruito la staccionata e la croce, i muratori che hanno piantato i supporti di ferro nella roccia, l'architetto che ha disegnato il tutto... pagherò di tasca mia solo i materiali. Abbiamo scelto il 25 perché era l'ultima domenica prima della festa dei morti”.
E' stata lei a chiamare il vice primo ministro?
“Assolutamente no. E' venuto di sua iniziativa assieme al ministro della giustizia il giorno dei defunti. Ma il momento più felice della mia vita è stato una settimana prima, quando l'ausiliario Renato Podbersic e il parroco Albert Strancar hanno benedetto la foiba. E' venuta giù un acqua fitta, uno scroscio, come se il cielo volesse partecipare al pianto... Ho mandato 180 inviti. La mia amica architetto Petric Moravec ci ha fatto stampare sopra questo appello: “Partecipate a un viaggio. Per tutti gli scomparsi il viaggio è durato 53 anni”. Adesso finalmente è finito”.


LA NAZIONE Quotidiano del 1 NOVEMBRE 1998
RIEMERGE LA VERITA’ SULLA STRAGE IN SLOVENIA ‘DIMENTICATA’ PER 53 ANNI Nella foiba più di 500 vittime “Molti triestini fra i morti. A massacro concluso gettarono sabbia e pesce per coprire l’odore”
Lorenzo Bianchi


CRNI VRH (SLOVENIA) La prima neve ha steso un sudario di silenzio. In fondo al pozzo carsico di Monte Nero un'orrida casualità ha ammonticchiato terribili resti, tibie ingiallite, teschi seminascosti dal terriccio. Attorno alla foiba i fiocchi bagnati infradiciano le tracce della prima pietà umana dopo 53 anni di paura, di omertà, di vergogna, tre grandi mazzi di fiori, una corona di alloro deposta nel giorno dei defunti dal vicepresidente dei governo sloveno Marian Podovnik. Finalmente è consentito piangere e ricordare.
Anka Pozenel, la fervente cattolica di Crni Vrh che ha voluto a tutti i costi una messa funebre e una benedizione per i morti rimossi e cancellati, ha lasciato gigli rosa e crisantemi. Nessuno sa quanti siano li dentro.
Neppure Damian Lampe, l’albergatore che ha accettato di mostrarmi il buco dell'orrore fra i faggi e gli abeti di Idriski Log, una frazione di Crni Vrh. Sul fondo di un avallamento c'è una staccionta di faggio color marrone rossiccio. Scivolando nella neve fangosa siamo arrivati fin sull'orlo della foiba. Sul camino profondo sessantacinque metri ora è sospesa una grande croce di legno. E'appoggiata su un recinto di dieci lati che circonda la cavità. L'architetto di Idrija, Heda Petric Moravec, l'ha disegnata così per ricordare la corona di spine di Cristo. L'idea della croce invece è stata di una compagna di scuola di Anka che le ha riferito una voce insistente.
Damian fissa la neve, imbarazzato e pensoso: “Potrebbro esserci dentro più di cinquecento persone, ma nessuno lo sa perché il servizio segreto militare, il Vos, ha fatto sparire i documenti con precisione metodica. E' assolutamente certo che ci fossero anche italiani. La signora Mikus, che aveva una trattoria vicino al bosco, ha raccontato ai suoi parenti che si sentivano invocazioni nella vostra lingua”.
Damian Lampe è nato a Crni Vrh nel 1941. Nella sua memoria è scolpito un giorno, il primo settembre 1944: “Alle sei arrivarono i partigiani titini del IX Korpus e spararono il primo colpo dritto sul campanile della chiesa. Lì si erano appostati i partigiani bianchi, i domobranci, con un mitra. Alle 10 i rossi tagliarono i fili spinati e misero a fuoco tutto il villaggio. Non si salvò nulla”.
Crni Vrh fu “bonificata” e qualche paesano, forse un autista, indicò al Vos la foiba. I camions carichi di prigionieri cominciarono ad arrivare solo dopo l'occupazione di Trieste, caduta in mani jugoslave l'8 maggio del 1945. Damian riferisce i racconti che per anni hanno riempito le case del paese, storie sussurrate solo fra le mura domestiche perché erano coperte da un ferreo “tabù” pubblico: “La gente arrestata a Trieste e in altri luoghi veniva concentrata a Vipacco, a Postumia e a Logatec. Il cervello delle operazioni era il servizio di sicurezza militare. I prigionieri li portavano legati l'uno all'altro con il filo di ferro, gli sparavano e li buttavano nel pozzo. Erano partigiani contrari ai titini, ma anche italiani. Pensi che mia madre Vittoria ebbe paura che ci fosse finito anche mio papà. L'avevano arrestato a Trieste e portato a Vipacco su indicazione del commissario politico del paese”. Toni Lampe non era un oppositore politico. Aveva avuto solo la disavventura di litigare furiosamente con l'uomo del partito.
La foiba di Idriski Log diventò un segreto impenetrabile. “Dalla foiba usciva un odore insopportabile. Ci buttarono dentro pesce per confondere le idee, mine e un alto strato di ghiaia”, spiega Damian. E soprattutto la gente del posto si cucì la bocca. Meglio non rischiare. La consegna si è sgretolata nel 1992 quando è franata la Jugoslavia. La Slovenia ha conquistato l'indipendenza. E Anka Puzenel, una commercialista fegatosa, si è liberata del macigno che la opprimeva. Dopo anni ha potuto chiedere un funerale e un prete per quei poveri morti. L'ha celebrato il 25 ottobre il vescovo vicario di Capodistria Renato Podbersic. I bimbetti della scuola elementare hanno piantato due piccole croci di legno sotto gli abeti e i faggi.


LA NAZIONE Quotidiano del 1 NOVEMBRE 1998
LA TESTIMONIANZA DI UMBERTO BERTUCCIOLI, ALL'EPOCA GUARDAFRONTIERA IN ZONA “Altri massacri lungo la ferrovia per Fiume”
Davide Eusebi


“Scavate, lì ci sono le foibe” Bertuccioli, 78 anni appena compiuti, ex guardafrontiera del Gaf il corpo creato da Mussolini per sorvegliare i confini nazionali, ha un incubo ricorrente, tornato a galla dopo la notizia del ritrovamento di fosse comuni a Monte Nero “La ferrovia che porta a Fiume potrebbe nascondere decine di altre foibe, in cui sono finiti migliaia di civili italiani innocenti, massacrati dai comunisti dopo l'8 settembre”
Ad avvalorare la tesi che potrebbe far lievitare il già tragico bilancio di morti innocenti durante l’ultima guerra, sono alcuni particolari che Bertuccioli ricorda e denuncia: “A Villa del Nevoso in provincia di Fiume, dove stavo svolgendo servizio militare, dopo l'8 settembre i partigiani rastrellarono tutte le donne e gli uomini italiani della zona. Li portarono in una fabbrichetta e, dopo avere invitato me ed altri militari a riconoscere nel gruppo qualche presunto criminale, cosa che non facemmo, annunciarono loro che il giorno dopo sarebbero stati fucilati. Ma né io né i miei compagni soldati sentimmo sparare un colpo e da allora abbiamo vissuto col sospetto, ma è qualcosa di più, che quella gente fosse stata lanciata nel vuoto da viva nelle foibe circostanti, forse per non dare alla gente del posto il sospetto della fucilazione di massa, e lì trovò la morte. Difficile, molto difficile pensare che tutti siano stati trasportati nella grande fossa in fondo al pozzo carsico del Monte Nero, una località troppo lontana da Villa del Nevoso”.
Bertuccioli, di guardia col suo cannoncino lungo la ferrovia, saprebbe dove andare a scavare: “Abbiamo vissuto quei momenti in presa diretta. Tutti hanno sempre saputo che ogni paesino che era attraversato dalla ferrovia che portava da Postumia a Fiume, era stato saccheggiato e rastrellato. Ogni paese, ogni zona carsica limitrofa a questi centri abitati potrebbe nascondere una buca di cadaveri. Così come il fiume sotterraneo Timavo, che si infila sotto il monte di Villa del Nevoso, potrebbe essere stato il cimitero per molti. Tutti hanno sempre saputo, ma nessuno ha mai ficcato il naso in queste zone e adesso è arrivato il momento di farlo”.
Immagini che sono scolpite nella mente dell'ex soldato: “Io stesso ho visto molte foibe, con i miei occhi. Ho letto la disperazione nei civili italiani condannati senza motivo: ferrovieri, impiegati, perfino la maestra dell'asilo, tutti ammucchiati come bestie e portati a morire negli strapiombi carsici. Ricordo il viso di una ragazza bellissima, un'impiegata della previdenza sociale, compagna di un mio amico soldato. Ci guardava mentre i partigiani ci invitavano a riconoscere quei poveretti, cosa che non facemmo. Non la rivedemmo più. Ci salvammo cantando bandiera rossa e poi scappammo, purtroppo, verso i campi di concentramento tedeschi”.


LA NAZIONE Quotidiano del 1 NOVEMBRE 1998

Fonte: http://www.italia-rsi.org/

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