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giovedì 25 luglio 2013

Accadeva 70 anni fa: con la "congiura" di gran parte dei membri del Gran Consiglio, orchestrata dal Re Vittorio Emanuele III° il popolo ha creduto che fosse stata la cosa più giusta da fare al momento, invece fu la cosa più nefasta che potevano fare all'Italia che poche settimane dopo si spaccò in due, iniziò da lì l'inizio della Resistenza Partigiana e l'inizio di una guerra civile cruenta che portò i Tedeschi presenti sul territorio Italiano a diventare da forza alleata a forza militare di occupazione, da lì iniziarono le trucidazioni, i massacri degli innocenti e le rappresaglie da parte dei Tedeschi sulle popolazioni Italiche; è stato riscontrato che gli ultimi 2 anni di conflitto (1943-1945) ha causato più disastri e più morti di tutti i primi 3 anni di conflitto (1940-1943) in definitiva, forse sarebbe stato meglio che la seduta del Gran Consiglio del 25 Luglio 1943 non fosse mai avvenuta!!!


25 LUGLIO 1943 - PALAZZO VENEZIA (ROMA)

Ordine del giorno Grandi

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
L'ordine del giorno Grandi - talvolta indicato come mozione Grandi - fu uno dei tre ordini del giorno (O.d.G.) presentati[1] alla seduta segreta del Gran Consiglio del Fascismo convocata per sabato 24 luglio 1943[2], che sarebbe stata anche l'ultima.
L'O.d.G. fu approvato e provocò, il giorno successivo, il 25 luglio 1943, la caduta del ventennale regime fascista presieduto da Benito Mussolini, con il conseguente arresto del Duce, per ordine del re Vittorio Emanuele III.

Le premesse [modifica]

L'operazione aveva preso forma con l'udienza data da Vittorio Emanuele III a Dino Grandi il 4 giugno 1943. [3] In questa occasione il re suggerì a Grandi che solo un voto del parlamento o del Gran Consiglio gli avrebbero dato le basi costituzionali per deporre Mussolini. [3] Come si poteva deporre legalmente il Duce? Il Duce poteva essere esautorato solo dal Re. Ma il monarca non ne aveva più il potere, avendolo consegnato tutto al Duce, sia quello di governo sia quello delle Forze armate. Quindi occorreva come prima cosa che fossero ripristinati i poteri costituzionali del Re; il quale poi avrebbe tolto le deleghe del comando militare a Mussolini e le avrebbe assegnate ad altri.
 
Una settimana prima della riunione del Gran Consiglio, e due giorni prima dell'incontro di Feltre fra Mussolini e Hitler, Heinrich Himmler riceveva un'informativa che anticipava le manovre in corso per deporre il Duce e sostituirlo con Pietro Badoglio. Il documento fa ripetuto riferimento al re Vittorio Emanuele III ed alla massoneria.
Come fare per "restituire" i poteri costituzionali al Re? I gerarchi si sarebbero rivolti formalmente al monarca, chiedendogli di applicare l'articolo 5 dello Statuto Fondamentale del Regno (meglio noto come Statuto Albertino). Era questo l'articolo che attribuiva al Re il Comando Supremo delle Forze Armate, che aveva delegato a Mussolini, e attribuiva al Capo dello Stato ogni decisione di vertice[4]. Lo strumento del Gran Consiglio serviva precisamente allo scopo.
Il compito di parlare a nome dei gerarchi davanti a Mussolini fu assolto da Dino Grandi, sia perché era presidente della Camera, ma anche perché godeva di un grandissimo prestigio tanto che molti lo indicavano come probabile successore di Mussolini. Il piano rappresentava peraltro una mano tesa a Mussolini, cui si forniva una via di uscita che lo sollevava dal pagare per la responsabilità di aver condotto il Paese vicino alla rovina.
« Ebbene, convocherò il Gran Consiglio. Si dirà in campo nemico che si è radunato per discutere la capitolazione. Ma l'adunerò. »
(Con questa frase Mussolini accettò di convocare il Gran Consiglio il 24 luglio 1943)
La riunione del Gran Consiglio, che non si teneva dal 1939, non fu ovviamente chiesta esplicitamente per deporre il Duce, bensì per esaminare la conduzione militare del conflitto; pare a taluni studiosi assai inverosimile che il Duce, accorto conoscitore e della politica e dei suoi gerarchi, non sospettasse subito l'argomento e non si rendesse conto che il Gran Consiglio aveva in mente di destituirlo, perciò è stata avanzata l'ipotesi (forse confortabile a posteriori dalla condotta dell'interessato durante la riunione) che Mussolini intendesse effettivamente rimettersi alle loro decisioni[5].
Chiesta una prima volta il 13 luglio, Mussolini la respinse. Una nuova richiesta venne fatta il 16. Tre giorni dopo, Mussolini, di ritorno dall'incontro con Hitler presso Feltre (BL), la concesse appunto per la sera del 24. Dal fronte giungevano intanto notizie sempre più allarmanti: il 22 luglio gli anglo-americani avevano completato la conquista della Sicilia e si apprestavano a risalire la penisola.

La seduta [modifica]

I lavori ebbero inizio poco dopo le 17. I consiglieri erano tutti in uniforme fascista con sahariana nera. Il segretario del partito fascista, Carlo Scorza chiamò l'appello, ma per il resto della seduta l'attività di segreteria fu svolta dal personale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni al seguito di Dino Grandi, presidente di quel ramo del Parlamento[6].
Mussolini riassunse la situazione bellica poi trasse le sue conclusioni:
« Ora il problema si pone. Guerra o pace? Resa a discrezione o resistenza a oltranza?...Dichiaro nettamente che l'Inghilterra non fa la guerra al fascismo, ma all'Italia. L'Inghilterra vuole un secolo innanzi a sé, per assicurarsi i suoi cinque pasti. Vuole occupare l'Italia, tenerla occupata. E poi noi siamo legati ai patti. Pacta sunt servanda. »
(Mussolini al termine del discorso introduttivo nella seduta del Gran Consiglio)
Esito della votazione nominativa e riassuntiva dell'Ordine del Giorno Grandi
Poi Grandi illustrò il suo O.d.G. In sostanza chiedeva il ripristino "di tutte le funzioni statali" e invitava il Duce a restituire il Comando delle Forze armate al Re.
Presero la parola alcuni gerarchi, ma non per affrontare gli argomenti degli O.d.G., bensì per fare chiarimenti o precisazioni. Si attendeva un intervento incisivo del capo del governo. Mussolini, invece, affermò impassibile di non avere nessuna intenzione di rinunciare al comando militare. Si avviò il dibattito che si protrasse fino alle undici di sera. Grandi diede un saggio delle sue grandi capacità oratorie: dissimulando abilmente lo scopo reale del suo O.d.G., si produsse in un elogio sia di Mussolini che del Re.
Anche lo stesso Ciano prese parola per difendere l'O.d.G. contestando le parole di Mussolini:
« Pacta sunt servanda? Si, certamente: però, quando vi sia un minimo di lealtà anche dall'altra parte. Ed invece, noi italiani abbiam sempre osservato i patti, i tedeschi mai. Insomma, la nostra lealtà non fu mai contraccambiata. Noi non saremmo, in ogni caso, dei traditori ma dei traditi. »
(Galeazzo Ciano in difesa dell'O.d.G.)
A questo punto anche Roberto Farinacci presentò un analogo Ordine del giorno.
Successivamente Carlo Scorza diede lettura di due missive indirizzate a Mussolini in cui il segretario del partito chiedeva al Duce di lasciare la direzione dei ministeri militari. I presenti rimasero molto colpiti, sia dal contenuto, sia dal fatto stesso che Mussolini avesse autorizzato Scorza a leggerle in quella sede. Quando si era arrivati ben oltre le undici di sera, la seduta venne sospesa momentaneamente e Grandi ne approfittò per raccogliere firme a favore dell'O.d.G.. Alla ripresa anche Bottai si espresse a favore dell'O.d.G. Grandi. Poi prese la parola Carlo Scorza, che invece invitò i consiglieri a non votarlo e presentò un proprio O.d.G. a favore di Mussolini.
Alcuni presenti valutarono nell'O.d.G. Grandi solamente il fatto che Mussolini veniva "sgravato dalle responsabilità militari" e, al contempo, la monarchia veniva chiamata all'azione, "traendola dall'imboscamento" (come dirà a posteriori Tullio Cianetti). Non si rendevano conto di quali enormi conseguenze avrebbe avuto un loro eventuale voto favorevole sull'assetto del regime. Alla fine del dibattito, i consiglieri si aspettavano un cenno di Mussolini.
Di solito egli riassumeva la discussione e i presenti si limitavano a prendere atto di quello che aveva detto. In quest'occasione, invece il Capo del governo non espresse alcun parere e, adottando un atteggiamento passivo, decise di passare subito alla votazione degli O.d.G. Inoltre, anziché cominciare da quello di Scorza, fece iniziare da quello di Grandi. Questa decisione di "disimpegno" fu fondamentale ed impresse una svolta decisiva all'esito della riunione.

La votazione [modifica]

I 28 componenti del Gran Consiglio furono chiamati a votare per appello nominale. La votazione sull'ordine del giorno Grandi si concluse con:
Dopo l'approvazione dell'O.d.G. Grandi, Mussolini ritenne inutile porre in votazione le altre mozioni e tolse la seduta. Alle 2,40 i presenti lasciarono la sala.

Le conseguenze [modifica]


L'indomani, 25 luglio, Mussolini si recò a Villa Savoia per un colloquio con il Re, che aveva fatto sapere che lo avrebbe ricevuto alle 16; vi si recò accompagnato dal segretario De Cesare, con sotto braccio una cartella che conteneva l'ordine del giorno Grandi, varie carte, e la legge di istituzione del Gran Consiglio, secondo cui l'organismo aveva solo carattere consultivo[7]. Il Re gli comunicò la sua sostituzione con il Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio e infine lo fece arrestare all'uscita di Villa Savoia e lo fece allontanare in un'autoambulanza militare per proteggerlo da una reazione popolare che avrebbe potuto porre in pericolo la sua vita.
Mussolini fu quindi nascosto e tenuto prigioniero presso la caserma della Scuola allievi carabinieri di Roma.

Per tutta la giornata venne mantenuto uno strettissimo riserbo su quanto accaduto. Solo alle 22,45 fu data la notizia. La radio interruppe le trasmissioni per diffondere il seguente comunicato:
« Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, presentate da S.E. il Cavaliere Benito Mussolini, e ha nominato Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, S.E. il Cavaliere Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio. »
Badoglio, per non destare sospetti nei confronti dei tedeschi, pronunciò, in un discorso radiofonico alla nazione, queste parole:
« […] La guerra continua a fianco dell'alleato germanico. L'Italia mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni […]. »
L'indomani (lunedì 26 luglio) la notizia aprì le prime pagine dei quotidiani. Tutti la pubblicarono con caratteri cubitali. Nessun giornale, però, sapeva che cosa ne era stato di Mussolini. L'intera giornata del 26 trascorse senza avvenimenti di rilievo. Solo la mattina del 27, martedì, la stampa diede notizia che il Gran Consiglio, nella notte tra il 24 e il 25, aveva votato l'ordine del giorno di Dino Grandi con la conseguente assunzione dei poteri da parte del Re [8].
Badoglio instaurò un governo tipicamente militare. Dietro suo ordine il 26 luglio il capo di stato maggiore, gen. Mario Roatta diramava una circolare telegrafica alle forze dell'ordine ed ai distaccamenti militari la quale disponeva che chiunque, anche isolatamente, avesse compiuto atti di violenza o ribellione contro le forze armate e di polizia, o avesse proferito insulti contro le stesse e le istituzioni fosse passato immediatamente per le armi. La circolare ordinava inoltre che ogni militare impiegato in servizio ordine pubblico che avesse compiuto il minimo gesto di solidarietà con i perturbatori dell'ordine, o avesse disobbedito agli ordini, o avesse anche minimamente vilipeso i superiori o le istituzioni fosse immediatamente fucilato. Gli assembramenti di più di tre persone andavano parimenti dispersi facendo ricorso alle armi e senza intimazioni preventive o preavvisi di alcun genere.
Il 28 luglio a Reggio Emilia i soldati spararono sugli operai delle officine Reggiane facendo 9 morti. Nello stesso giorno a Bari si contarono 9 morti e 40 feriti. In totale nei soli 5 giorni seguenti al 25 luglio i morti in seguito ad interventi di polizia ed esercito furono 83, i feriti 308, gli arrestati 1.500[9].
Nei giorni seguenti il nuovo esecutivo iniziò a prendere contatti con gli alleati per trattare la resa. Poche settimane dopo, il 3 settembre, il governo firmò con gli Alleati l'armistizio di Cassibile, che venne reso noto l'8 settembre.
Costituita la Repubblica Sociale Italiana il 28 settembre 1943 ad opera di Mussolini liberato dai paracadutisti tedeschi del Fallschirmjäger-Lehrbataillon, i membri del Gran Consiglio che avevano votato a favore dell'ordine del giorno Grandi furono condannati a morte come traditori nel processo di Verona, tenutosi dall'8 al 10 gennaio 1944; Cianetti, grazie alla sua ritrattazione, scampò alla pena capitale e venne condannato a 30 anni di reclusione. Tuttavia i fascisti repubblicani riuscirono ad arrestare solo 5 dei condannati a morte (Ciano, De Bono, Marinelli, Pareschi e Gottardi) che furono giustiziati mediante fucilazione l'11 gennaio 1944.

giovedì 12 gennaio 2012

Giacomo Matteotti e il mistero del suo assassinio...chi fu veramente il deputato Socialista ucciso in circostanze misteriose a Roma, nel lontano 1924?

Da http://ritornoallatradizione.blogspot.com: Mi informo da tempo sul caso Matteotti: uno dei tanti (finti) miti dell'Italia antifascista. Ho letto le ricostruzioni più disparate in varie monografie; ho sentito più di un racconto di persone che hanno vissuto quegli anni in prima persona. Una vicenda torbida. Non solo perché è morto un uomo, ma perché a ciò si uniscono le ombre di una versione ufficiale che fa acqua da tutte le parti. E non serve essere storici per capirlo; basterebbero solo un po' di logica ed un pizzico di buona fede. Merce rara evidentemente.
Bene, vediamo: il buon Giacomino, socialista di tutto rispetto, sempre ritratto nei libri di testo e in quelli di storia come un fanciullino, (giusto per sfiorare "quel tasto del patetico a cui noi italiani siamo particolarmente sensibili "), viene brutalmente ucciso da un pugno di fascisti al soldo di Mussolini. Motivo? Il prode Giacomino aveva denunciato i brogli elettorali di questi cattivi signori che, per non perdere la faccia, l'hanno confinato nel regno delle talpe,ovvero animaletti che non sentono, non vedono e non parlano.
Una storiella "carina" , non c'è che dire. E molto efficace in chiave politica, giacché riesce benissimo a gettare il marchio dell'infamia addosso al nemico ieri imperante, oggi sconfitto.
Allora, iniziamo a porre qualche dubbio, nella speranza di sfiorare qualche candida coscienza, (ammesso che ve ne siano ancora!), tra le fila dell'Italia moderna, democratica e antifascista.
Siete proprio sicuri che le cose siano andate così?
Allora ditemi: perché Mussolini avrebbe dovuto volere proprio la morte di Matteotti? Perché non si sarebbe comportato con lui come fece in altre occasioni con avversari, non meno ingombranti, del calibro di Pertini e Gramsci, mandati in carcere, previo regolare processo, mantenuti e curati  a spese dello Stato? Anche questi ultimi, in fondo, avevano denunciato l'operato delle Camicie Nere, eppure non furono mai uccisi.
Evidentemente, la ragione risiede altrove. Vi preannuncio che non sarà facile trovare riscontro alle parole che seguono, dato che pochi autori ne parlano, (R. Sermonti in primis). Comunque, dovete tenere presente una data, 1923, ed un luogo, Francia.  Infatti, in quell'anno nel Paese transalpino muoiono diversi  fascisti: a Strasburgo era stato ucciso un ebanista; a Marsiglia erano stati rinvenuti i corpi di due iscritti al Fascio di quella città; in seguito a Parigi erano stati uccisi altri due fascisti.

Su queste morti indagherà Amerigo Dumini.

Non è abbastanza singolare la circostanza che Dumini nel 1923 cercasse di scoprire la verità su quelle morti misteriose, e nel 1924 fosse uno dei responsabili del cd. "omicidio Matteotti"?
Sì, e non è solo singolare, ma addirittura sospetta. Ed è questa la tesi che Sermonti ed altri sostengono: Matteotti, assiduo frequentatore dei congressi socialisti anche all'estero, era il mandante di quelle morti. Dumini, Volpi, Povermo e gli altri, avevano il compito di prelevare il deputato socialista per condurlo davanti alle autorità, perché fosse ascoltato. Nel tentativo di condurre in auto Matteotti, sarebbe nata una colluttazione tra quest'ultimo e gli uomini della Ceka, in cui probabilmente Matteotti restò ACCIDENTALMENTE UCCISO, (come è stato scritto in più parti), o addirittura morì INASPETTAMENTE per una emottisi, causata forse da un aneurisma cerebrale, (come scritto in altre). Fatto sta che la morte del deputato gettò nel caos più profondo Dumini e compagni, (ma non erano stati assoldati per ucciderlo?), i quali vagarono tutta la notte con la lussuosa Lancia, (avevano scelto una macchina proprio "invisibile" per l'epoca), per cercare di trovare una soluzione. Alla fine, scelsero di seppellirlo maldestramente nel bosco della Quarterella: una fossa scavata alla bene e meglio, con mezzi di fortuna, (forse un cacciavite o un pugnale-che strano, questi dovevano accoppare un uomo e non avevano pensato a portarsi una pala!), coperta da un pugno di terra e da qualche foglia, ove il cadavere resterà abbandonato fino al  ritrovamento casuale, avvenuto il 16 agosto, da parte del cane di un brigadiere dei Carabinieri in licenza. 
Mussolini, all'epoca astro nascente della politica italiana, conobbe un periodo di forte crisi. Si assumerà la responsabilità morale e storica del clima di violenza in un famoso discorso alle Camere, ma mai una qualche forma di responsabilità diretta nella vicenda, impossibile da dimostrare perché inesistente.
Potete trovare queste ed altre ricostruzioni navigando un po' in rete, oppure cercando testi tipo "Rutilio Sermonti- L'Italia nel XX secolo" oppure "Franco Scalzo- Il caso Matteotti: radiografia di un falso storico". C'è anche dell'altro materiale interessante, firmato dalle penne di Romanato, (prof. dell'Università di Padova), e recensito da Parlato, (storico apprezzato ed affermato già da tempo), che pone all'attenzione del grande pubblico vicende e lati del carattere di Matteotti fino ad oggi sconosciuti. Scritti che danno l'immagine di un uomo violento, fomentato e fomentatore, implicato addirittura in strani giri di strozzinaggio. Insomma, tutto tranne che quel bel giovinetto dalla faccia pulita, vittima della malvagità delle Camicie nere! C.V. D.

Buona lettura,
Roberto Marzola.

STROZZINO E VIOLENTO ESTREMISTA: 
SI INCRINA IL MITO DI GIACOMO MATTEOTTI
 
Lo storico Romanato traccia il ritratto del deputato socialista, pacifista in parlamento e rivoluzionario nel Polesine.

N
on si tratta di fare del revisionismo, piuttosto di andare oltre l’agiografia, tentando di superare il mito a favore di una maggiore conoscenza della nostra storia. Una missione non facile quando si prende in esame Giacomo Matteotti, come ha fatto il professore dell’Università di Padova Gianpaolo Romanato nella bella biografia "Un italiano diverso" (Longanesi) che ieri Giuseppe Parlato ha recensito su queste pagine.
Del leader socialista assassinato dai fascisti ci resta oggi un santino, una descrizione eroica che in parte è certamente era,(ma qui abbiamo già risposto, ndr) ma incompleta. Meno noti al grande pubblico sono i lati più problematici del personaggio, due in particolare: le accuse di strozzinaggio rivolte alla famiglia Matteotti (di cui abbiamo già parlato) e il rapporto del deputato socialista con le violenze del cosiddetto biennio rosso. Lo studioso parla di «un clima di violenza e di guerra civile che, a opera dei socialisti e soprattutto delle leghe, imbarbarì la provincia». 
Matteotti proveniva dal Polesine, e trattò in due discorsi parlamentari la drammatica questione del suo territorio. Il suo atteggiamento, tuttavia, fu ambivalente. Da un lato, alla Camera, il tono dei suoi discorsi era più conciliante, a casa propria invece si poneva diversamente.
In quelle zone l’egemonia socialista era fortissima, e Matteotti mostrava una «singolare dicotomia», come l’ha chiamata sull’Osservatore Romano un altro studioso di vaglia, Roberto Pertici: «A Rovigo, rivoluzionario e ossequiente all’estremismo oppressivo delle leghe del primo dopoguerra; alla Camera legalitario ed esperto di questioni tecniche e giuridiche».
Meriti e peccati: Pertici è un moderato, parlando con «Libero» riconosce i meriti di Matteotti e prende in tutti i modi le distanze dal sensazionalismo. Ma nel suo articolo per l’Osservatore spiega che Giacomo «diede copertura politica (volente o nolente) al clima di violenza e di guerra civile. Quel clima di violenza e di dura sopraffazione Matteotti non lo crea, ma lo protegge e non lo frena», ci dice il professore, «non si opponeva per non perdere il rapporto con il suo elettorato polesano». Del resto questa era la linea del suo schieramento.
«Il partito socialista», prosegue Pertici, «era inebriato dalla prospettiva della rivoluzione russa, le direttive erano quelle di alimentare il clima rivoluzionario. Nella provincia italiana, specie nelle campagne, si creò dunque una situazione di violenza diffusa e pressione sociale fortissima. Ci furono i morti, certo, ma ci fu anche una violenza diciamo ambientale: i reduci della guerra venivano derisi, i mutilati erano presi in giro, si impediva ai Comuni di esporre la bandiera. Il presidente del Consiglio Nitti, nel ’19, non fece festeggiare l’anniversario della fine del conflitto per non indispettire i socialisti, mentre tutti i Paesi europei lo celebravano».
Fu in questo quadro che si sviluppò la reazione dei fasci, inizialmente appoggiata anche dai popolari e dai moderati, che la intendevano come un freno al caos socialista. Poi, ovvio, il fascismo prese un’altra strada. Rispetto alle violenze rosse, nel libro di Romanato si legge un ruvido articolo comparso sul giornale dei popolari del Polesine che condanna duramente gli esponenti del partito di Matteotti: «Ci sono poche cose che corrompono tanto un popolo come l’abitudine dell’odio; e voi, capi del socialismo polesano, questo sentimento l’avete fomentato in tutte le guise».
Anche Romanato è estremamente cauto nei giudizi, e il suo libro è tutt’altro che denigratorio nei confronti del deputato socialista, cosa che lo rende ancora più importante e apprezzabile. A proposito delle coperture alla violenza politica, preferisce dire che Matteotti «fu condizionato da avvenimenti che non sempre seppe o poté governare. Il Polesine era una provincia poverissima e marginale», dice a Libero, «dove la lotta politica aveva poche mediazioni e facilmente degenerava nella rissa. Inoltre il socialismo locale fu sempre egemonizzato da spinte massimaliste, cioè rivoluzionarie. I due maggiori leader, prima Nicola Badaloni e poi Matteotti, operarono per moderare tali spinte e incanalarle in un’azione politica organizzata e più disciplinata. Ma dopo la guerra, quando il conflitto si accese, Matteotti ebbe sempre meno spazio per le mediazioni, non avendo neppure più la sponda di Badaloni. È questa la fase, siamo nel cosiddetto “biennio rosso”, in cui Matteotti apparve in Polesine più un piromane che un pompiere. Altra era invece la linea che teneva a Roma, dove il confronto era dialettico e non “pugilistico”. Questa duplicità gli fu rimproverata da tutti i suoi avversari, liberali, cattolici e fascisti».
Lo studioso racconta che nelle terre di Matteotti regnava una «violenza insostenibile», la quale contribuì certo a suscitare una reazione “nera”. «Il clima in Polesine, come anche nelle contigue province di Ferrara, Bologna e Mantova, era pesantissimo, di strisciante guerra civile», dice. «La documentazione che ho portato nel libro conferma l’esistenza di una situazione di violenza insostenibile, sia pure motivata da sacrosante richieste di giustizia sociale. Solo in Polesine ci furono una ventina di morti in poco più di due anni. È questo l’inferno da cui sorse lo squadrismo fascista, che, di suo, aggiunse all’esercizio della violenza una metodo, una disciplina e un’organizzazione che i socialisti non avevano».
Antiborghese: Il problema, come nota Roberto Pertici, è il tipo di riformismo che il partito di Matteotti propugnava. L’orizzonte era sempre quello della rivoluzione socialista, anche se con la convinzione che per realizzarla fosse necessaria una certa gradualità. I dirigenti dello schieramento rosso non si riconoscevano nelle istituzioni dello Stato democratico e borghese, anzi si consideravano estranei ad esse, le combattevano, per un certo periodo anche a costo di fomentare la violenza nelle province. Solo in seguito cambiarono rotta, ma ormai era troppo tardi, l’avvento del fascismo si faceva inarrestabile.
Giacomo Matteotti, prima di morire - come ha scritto ieri Giuseppe Parlato - aveva accentuato le sue posizioni anticomuniste, poi fu ammazzato come tutti sanno. Tentò di combattere la dittatura incipiente, come chiunque gli riconosce. Proprio per questo bisogna raccontare anche come agì in precedenza.
 
 
di Francesco Borgonovo

Giacomo Matteotti (Fratta Polesine, Rovigo, 1885-Roma 1924). Deputato socialista, nell'ottobre del 1922 fu nominato segretario del Partito Socialista Unificato. Avverso alla politica di compromessi praticata anche da molti compagni, fu tra gli oppositori più efficaci e decisi del governo Mussolini che attaccò più volte alla Camera sino al duro discorso del 30 maggio 1924 con cui denunciò le violenze e i brogli commessi per vincere le elezioni del 6 aprile. Assalito pochi giorni dopo (10 giugno) da una banda di sicari fascisti (A. Dumini, A. Volpi, A. Poveromo, A. Putato, A. Malacria e G. Viola), fu ucciso e sepolto alla Quartarella, località deserta della campagna romana. Il cadavere fu ritrovato il 16 agosto successivo. La notizia del delitto suscitò un'ondata di orrore e di indignazione che parve mettere in pericolo le basi dello stesso governo, ma le opposizioni non seppero agire con sufficiente energia e Mussolini poté in poco tempo superare la grave crisi. Solo nel 1947 fu celebrato il processo contro i superstiti esecutori materiali del delitto (Dumini, Poveromo e Viola), che furono condannati a 30 anni di reclusione.

BibliografiaE. Bassi, Giacomo Matteotti, Milano, 1945; P. Gobetti, Matteotti, Milano, 1945; G. Spagnuolo, Ceka fascista e delitto Matteotti, Roma, 1947; G. Salvemini, Nuova luce sull'affare Matteotti, in «Il Ponte», 1955; G. Arfè, Giacomo Matteotti uomo e politico, in «Rivista Storica Italiana», 1966; A. G. Casanova, Matteotti. Una vita per il socialismo, Milano, 1974; S. Merli, Fronte antifascista e politica di classe. Socialisti e comunisti in Italia 1923-1939, Bari, 1975; C. Carini, Giacomo Matteotti. Idee giuridiche e azione politica, Firenze, 1984.
 
Fonte: http://www.ossimoro.it

giovedì 8 settembre 2011

25 Luglio 1943: Dimissioni di Benito Mussolini Capo e Duce del Fascismo Italiano, Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d'Italia dal 1922!



L'Ordine del giorno Grandi - Talvolta indicato come Mozione Grandi - Fu uno dei tre ordini del giorno (O.d.G.) presentati[1] alla seduta segreta del Gran Consiglio del Fascismo convocata per sabato 24 luglio 1943[2], che sarebbe stata anche l'ultima.
L'O.d.G. fu approvato e provocò la caduta di Benito Mussolini aprendo l'ultima fase del regime fascista, caratterizzata dalla Repubblica Sociale Italiana.
I lavori ebbero inizio poco dopo le 17. I consiglieri erano tutti in uniforme fascista con sahariana nera. Il segretario del partito fascista, Carlo Scorza chiamò l'appello, ma per il resto della seduta l'attività di segreteria fu svolta dallo staff della Camera dei Fasci e delle Corporazioni al seguito di Dino Grandi, presidente di quel ramo del Parlamento[6].
Mussolini riassunse la situazione bellica poi trasse le sue conclusioni:

« Ora il problema si pone. Guerra o pace? Resa a discrezione o resistenza a oltranza?...Dichiaro nettamente che l'Inghilterra non fa la guerra al fascismo, ma all'Italia. L'Inghilterra vuole un secolo innanzi a sè, per assicurarsi i suoi cinque pasti. Vuole occupare l'Italia, tenerla occupata. E poi noi siamo legati ai patti. Pacta sunt servanda. »

(Mussolini al termine del discorso introduttivo nella seduta del Gran Consiglio)


Poi Grandi illustrò il suo O.d.G. In sostanza chiedeva il ripristino "di tutte le funzioni statali" e invitava il Duce a restituire il Comando delle Forze armate al Re.
Presero la parola alcuni gerarchi, ma non per affrontare gli argomenti degli O.d.G., bensì per fare chiarimenti o precisazioni. Si attendeva un intervento incisivo del capo del governo. Mussolini, invece, affermò impassibile di non avere nessuna intenzione di rinunciare al comando militare. Si avviò il dibattito che si protrasse fin oltre le undici di sera. Grandi diede un saggio delle sue grandi capacità oratorie: dissimulando abilmente lo scopo reale del suo O.d.G., si produsse in un elogio sia di Mussolini che del Re.
Anche lo stesso Ciano prese parola per difendere l'O.d.G. contestando le parole di Mussolini:

« Pacta sunt servanda? Si, certamente: però, quando vi sia un minimo di lealtà anche dall'altra parte. Ed invece, noi italiani abbiam sempre osservato i patti, i tedeschi mai. Insomma, la nostra lealtà non fu mai contraccambiata. Noi non saremmo, in ogni caso, dei traditori ma dei traditi. »

(Galeazzo Ciano in difesa dell'O.d.G.)
A questo punto anche Roberto Farinacci presentò un analogo Ordine del giorno.
Successivamente Carlo Scorza diede lettura di due missive indirizzate a Mussolini in cui il segretario del partito chiedeva al Duce di lasciare la direzione dei ministeri militari. I presenti rimasero molto colpiti, sia dal contenuto, sia dal fatto stesso che Mussolini avesse autorizzato Scorza a leggerle in quella sede. Quando si era arrivati ben oltre le undici di sera, la seduta venne sospesa momentaneamente e Grandi ne approfittò per raccogliere firme a favore dell'O.d.G.. Alla ripresa anche Bottai si espresse a favore dell'O.d.G. Grandi. Poi prese la parola Carlo Scorza, che invece invitò i consiglieri a non votarlo e presentò un proprio O.d.G. a favore di Mussolini.
Alcuni presenti valutarono nell'O.d.G. Grandi solamente il fatto che Mussolini veniva "sgravato dalle responsabilità militari" e, al contempo, la monarchia veniva chiamata all'azione, "traendola dall'imboscamento" (come dirà a posteriori Tullio Cianetti). Non si rendevano conto di quali enormi conseguenze avrebbe avuto un loro eventuale voto favorevole sull'assetto del regime. Alla fine del dibattito, i consiglieri si aspettavano un cenno di Mussolini.
Di solito egli riassumeva la discussione e i presenti si limitavano a prendere atto di quello che aveva detto. In quest'occasione, invece il Capo del governo non espresse alcun parere e, adottando un atteggiamento passivo, decise di passare subito alla votazione degli O.d.G. Inoltre, anziché cominciare da quello di Scorza, fece iniziare da quello di Grandi. Questa decisione di "disimpegno" fu fondamentale ed impresse una svolta decisiva all'esito della riunione.
I 28 componenti del Gran Consiglio furono chiamati a votare per appello nominale. La votazione sull'ordine del giorno Grandi si concluse con:
Dopo l'approvazione dell'O.d.G. Grandi, Mussolini ritenne inutile porre in votazione le altre mozioni e tolse la seduta. Alle 2,40 i presenti lasciarono la sala.
L'indomani, 25 luglio, Mussolini si recò a Villa Savoia per un colloquio con il Re, che aveva fatto sapere che lo avrebbe ricevuto alle 16; vi si recò accompagnato dal segretario De Cesare, con sotto braccio una cartella che conteneva l'ordine del giorno Grandi, varie carte, e la legge di istituzione del Gran Consiglio, secondo cui l'organismo aveva solo carattere consultivo[7]. Il Re gli comunicò la sua sostituzione con il Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio e infine lo fece arrestare all'uscita di Villa Savoia.
Per tutta la giornata venne mantenuto uno strettissimo riserbo su quanto accaduto. Solo alle 22,45 fu data la notizia. La radio interruppe le trasmissioni per diffondere il seguente comunicato:

« Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, presentate da S.E. il Cavaliere Benito Mussolini, e ha nominato Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, S.E. il Cavaliere Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio. »
Badoglio, per non destare sospetti nei confronti dei tedeschi, pronunciò, in un discorso radiofonico alla nazione, queste parole:

« […] La guerra continua a fianco dell'alleato germanico. L'Italia mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni […]. »
L'indomani (lunedì 26 luglio) la notizia aprì le prime pagine dei quotidiani. Tutti la pubblicarono con caratteri cubitali. Nessun giornale, però, sapeva che cosa ne era stato di Mussolini. L'intera giornata del 26 trascorse senza avvenimenti di rilievo. Solo la mattina del 27, martedì, la stampa diede notizia che il Gran Consiglio, nella notte tra il 24 e il 25, aveva votato l'ordine del giorno di Dino Grandi con la conseguente assunzione dei poteri da parte del Re [8].
Badoglio instaurò un governo tipicamente militare. Dietro suo ordine il 26 luglio il Capo di Stato Maggiore, Gen. Mario Roatta diramava una circolare telegrafica alle forze dell'ordine ed ai distaccamenti militari la quale disponeva che chiunque, anche isolatamente, avesse compiuto atti di violenza o ribellione contro le forze armate e di polizia, o avesse proferito insulti contro le stesse e le istituzioni fosse passato immediatamente per le armi. La circolare ordinava inoltre che ogni militare impiegato in servizio ordine pubblico che avesse compiuto il minimo gesto di solidarietà con i perturbatori dell'ordine, o avesse disobbedito agli ordini, o avesse anche minimamente vilipeso i superiori o le istituzioni fosse immediatamente fucilato. Gli assembramenti di più di tre persone andavano parimenti dispersi facendo ricorso alle armi e senza intimazioni preventive o preavvisi di alcun genere.
Il 28 luglio a Reggio Emilia i soldati spararono sugli operai delle officine Reggiane facendo 9 morti. Nello stesso giorno a Bari si contarono 9 morti e 40 feriti. In totale nei soli 5 giorni seguenti al 25 luglio i morti in seguito ad interventi di polizia ed esercito furono 83, i feriti 308, gli arrestati 1.500[9].
Nei giorni seguenti il nuovo esecutivo iniziò a prendere contatti con gli alleati per trattare la resa. Poche settimane dopo, il 3 settembre, il governo firmò con gli Alleati l'armistizio di Cassibile, che venne reso noto l'8 settembre.
Costituita la Repubblica Sociale Italiana il 28 settembre 1943 ad opera di Mussolini liberato dai paracadutisti tedeschi del Fallschirmjäger-Lehrbataillon, i membri del Gran Consiglio che avevano votato a favore dell'ordine del giorno Grandi furono condannati a morte come traditori nel processo di Verona, tenutosi dall'8 al 10 gennaio 1944; Cianetti, grazie alla sua ritrattazione, scampò alla pena capitale e venne condannato a 30 anni di reclusione. Tuttavia i fascisti repubblicani riuscirono ad arrestare solo 5 dei condannati a morte (Ciano, De Bono, Marinelli, Pareschi e Gottardi) che furono giustiziati mediante fucilazione l'11 gennaio 1944.

Fonte: http://it.wikipedia.org/

sabato 12 aprile 2008

Skinhead organizzano presidio anti-fascista a Perugia contro Fiore di Forza Nuova!

(Sopra: Skinhead anti-fascisti...nazi-maoisti?)
PERUGIA - Durante la visita in città del candidato premier Fiore di "Forza Nuova" a Perugia i cittadini hanno potuto assistere ad un insolito presidio anti-fascista organizzato non dai soliti gruppetti di movimenti giovanili Comunisti o dai soliti "bisnonni" dell' A.N.P.I. ma bensì da un gruppo di giovani skinhead...la curiosità è forte: forse sono teste rasate "nazi-maoiste"? Anche perchè, da come potete vedere nella foto sopra, il colore che predomina è il nero e non certo il rosso...

ITALIA-CINA

ITALIA-CINA
PER L'ALLEANZA, LA COOPERAZIONE, L'AMICIZIA E LA COLLABORAZIONE TRA' LA REPUBBLICA ITALIANA E LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE!!!