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lunedì 4 agosto 2008

Cina: Sparano alla schiena per colpire al cuore!

Con migliaia di esecuzioni l'anno la Cina detiene il triste primato mondiale nella classifica dei Paesi in cui vige la pena di morte. E la sentenza capitale viene messa in atto con spietata ed elaborata precisione. Come racconta lo scrittore cinese Dai Sijie!
Sulla pena di morte in Cina (oltre cinquemila condanne l’anno), si è letto e visto parecchio, a cominciare da certi sconcertanti reportage fotografici.
Dai Sijie, che con Balzac e la piccola sarta cinese (Adelphi) ci aveva introdotti agli orrori perpetrati dalle guardie rosse ai tempi della rivoluzione culturale, torna ora alla carica con Muo e la vergine cinese (Adelphi), un romanzo che mette a nudo alcuni aspetti controversi dell’inquietante potenza asiatica, dall’industrializzazione forzata alla corruzione dilagante, dal suo disumano capitalismo mascherato da socialismo alle arcaiche tradizioni.
Il protagonista della storia è Muo, un cinese laureato in psicoanalisi, imbevuto di teorie freudiane e lacaniane, reduce da un lungo soggiorno di studi a Parigi, una sorta di macchietta, una versione ancora più imbranata e pasticciona dei personaggi nevrotici dei film di Woody Allen. Una specie di cartone animato che sbatte il muso contro gli orrori del sistema ma riparte sempre da capo per ottusa testardaggine e surreale generosità.
Il suo progetto lo porterà ad affrontare il temibile giudice Di, un fucilatore da plotone di esecuzione diventato magistrato per meriti acquisiti sul campo. La descrizione che ne fa Dai Sijie è più spietata di un colpo alla nuca. Le sue parole più eloquenti di quelle di un appello per l’abolizione della pena di morte. Appelli che pure bisogna scrivere e firmare.
«Il nome per esteso del giudice è Di Jiangui, in cui Di è il cognome e Jiangui il nome proprio, molto diffuso tra i cinesi nati contemporaneamente alla Repubblica Popolare, nel 1949, e che significa “Costruzione della Patria”, in riferimento a un solenne discorso pronunciato da Mao in piazza Tian’an Men con la sua voce da controtenore, leggermente tremula. All’inizio degli anni Settanta, Di Jiangui, che veniva da una famiglia di operai, si era arruolato nella polizia, pilastro della dittatura del proletariato, dove era rimasto per una quindicina d’anni, diventando tiratore scelto nei plotoni di esecuzione e buon comunista. Nel 1985, in piena riforma economica, era stato nominato giudice presso il tribunale di Chengdu, una città di otto milioni di abitanti. Un bel colpo di fortuna, quel posto così ambito e prestigioso! Poiché la maggior parte degli affari cinesi, soprattutto quelli giudiziari, si decide a suon di mazzette, il neoletto giudice aveva fissato senza indugi la sua tariffa: mille dollari per un delitto comune, una cifra astronomica per l’epoca. Poi, a mano a mano che il costo della vita cresceva, il prezzo di Di era andato moltiplicandosi, fino a raggiungere i diecimila dollari quando Vulcano della vecchia Luna si era fatta arrestare, cadendo nelle sue grinfie. Un affare politico».
Chi è Vulcano della Vecchia Luna? Per quali ragioni si è fatta arrestare? Perché Muo ne combina di tutti i colori per farla liberare? Lasciamo inevasi questi interrogativi per invogliare il lettore, mentre torniamo al «nostro» giudice e ai suoi singolari passatempi.
«Questi, dopo il debutto in magistratura, aveva preso l’abitudine di “rigenerarsi” –come diceva lui– andando a correre ogni domenica mattina su un terreno incolto, lo stesso in cui da tempo immemorabile il plotone di esecuzione usa fucilare i condannati a morte, soli o in gruppi».
È qui che si reca Muo con l’intenzione di incontrare il giudice per corromperlo. Ma s’imbatte in due tristi figuri che stanno scavando delle fosse.
Muo chiese ragguagli sulla funzione delle buche che stavano scavando.
«”Senza queste”, spiegò il giustiziere del verme “il tizio prima di esalare l’ultimo respiro, rotola dove capita, e il sangue va dappertutto”.
“Il criminale”, aggiunse l’altro, che aveva un’aria più intelligente, “viene giustiziato in ginocchio, con un colpo dritto al cuore. Di solito cade stecchito nella buca. E se durante l’agonia si dibatte, la terra gli si ammassa attorno immobilizzandolo. Allora vengono i medici a espiantare gli organi”».
La visita della collina delle esecuzioni fa venire a Muo i sudori freddi.
«Gli si affacciò alla memoria il volto di un amico d’infanzia dimenticato da tempo. Ebbe un fremito di orrore. Era Chen, detto “Capelli bianchi”, l’unico tra i suoi amici ad aver conosciuto, agli inizi degli anni Ottanta, la ricchezza e il successo: era diventato genero del sindaco e proprietario di una società quotata in borsa, finché, tre anni prima, non l’avevano condannato a morte per contrabbando di automobili straniere. Era stato giustiziato ai piedi della collina? Magari in ginocchio, la schiena offerta alla canna di un fucile anonimo, ai colpi di un’arma senza pietà che fa fuoco da pochi metri di distanza? Aveva sentito dire che la posizione delle dita di un condannato è fondamentale, e che i soldati hanno cura di legargli le braccia sul dorso in modo tale che le pallottole dei tiratori possano colpire con precisione il piccolo spazio tra il dito indice e il medio, dietro il quale si trova il cuore».
Finalmente Muo incontra il giudice Di, nel suo studio. Nell’attesa che arrivi, si guarda attorno.
«Accanto, sopra un televisore, c’era uno strano oggetto –l’unico in tutto l’ufficio a potersi definire artistico– che un raggio di sole filtrato dalle veneziane cospargeva di pagliuzze scintillanti: a prima vista sembravano monete di rame, in realtà era un modellino di aereo da combattimento interamente costruito con bossoli di fucile. Centinaia di bossoli, su ciascuno dei quali erano incisi un nome e una data».
Passerà un po’ di tempo e succederanno cose strane e incresciose prima che Muo si renda conto appieno della matrice di quell’insolito soprammobile.
«Muo posò lo sguardo sul modellino dell’aereo da combattimento, su cui non danzava più alcuna pagliuzza scintillante. Il rame dei bossoli si era scurito.
«Per puro caso gli saltò all’occhio un dettaglio: parecchi di quei bossoli portavano la stessa data. La verità gli si rivelò di punto in bianco: ogni nome corrispondeva a un prigionieri fucilato da lui, dall’ex tiratore scelto, e la data era quella dell’esecuzione. A volte ne aveva giustiziati più di uno nello stesso giorno. Ciascun bossolo era la testimonianza di una pallottola assassina, uscita da un fucile che aveva centrato il piccolo spazio compreso tra l'’ndice e il medio del condannato, dietro cui si trovava il cuore».
Il resto del libro lo lasciamo al piacere della vostra lettura. Perché Dai Sijie affronta problemi come la corruzione e la pena di morte senza lasciarsi sopraffare e scrivendo pagine addirittura esilaranti.
Se la vicenda in parte descritta non vi convince perché puzza di finzione ed esagerazione, in altre parole è romanzesca, prendete almeno per buona la storia vera racconta dal giornale cinese Caijing nel numero del 13 dicembre 2004. Parla di un omicida reo confesso che è quasi riuscito a evitare il carcere per sedici anni grazie all’influenza politica della sua famiglia, un po’ come Chen, il genero del sindaco nel libro di Dai Sijie.
Teatro della vicenda è la provincia di Heilongjiang, nel nordest della Cina, dove, il 26 maggio del 1988, Han Jianxum ha ucciso sua moglie Yang Yongxia e il figlio di un anno. Dopo l’arresto e la confessione, l’assassino è stato trasferito in una prigione dove, di fatto, ha potuto condurre una vita libera con la possibilità di rientrare a casa. Nel 1994 è stato scarcerato e si è trasferito in un’altra provincia. Nel frattempo gli inquirenti non hanno mai istruito il processo. La lentezza del tribunale era dovuta alle tangenti pagate dalla madre dell’omicida e alle pressioni esercitate da un potente uomo politico locale il cui figlio ha sposato la sorella minore di Han Jianxum. In tutti questi anni la famiglia della vittima si è battuta invano per la celebrazione del processo. La svolta è arrivata nel febbraio 2004, quando il boss politico che proteggeva l’assassino è stato arrestato per corruzione. Han Jianxum è stato di nuovo arrestato e il processo è iniziato.
Cina è il paese con il maggior numero di condannati a morte, anche se mancano statistiche ufficiali in materia. Tra i 65 reati figurano l'omicidio, il traffico di droga, reati economici, politici, d'opinione, la pirateria informatica e l’uccisione di animali protetti.
Vengono spesso organizzate manifestazioni di massa per la lettura della sentenza di morte, e l'esecuzione viene compiuta subito dopo: i condannati vengono mostrati al pubblico con la testa reclinata, le mani legate dietro la schiena e un cartello con il nome e l'indicazione dei crimini commessi legato al collo. Molti trascorrono il periodo che va dalla condanna all'esecuzione ammanettati e coi ferri alle caviglie. Gli organi del condannato vengono quasi sempre espiantati, ma senza chiedere il consenso alla famiglia.
Ecco alcuni reati che possono costare la condanna a morte:
Allevamento illegale di bestiame
Omicidio
Tentato omicidio
Omicidio colposo
Uccisione di una tigre
Rapina e rapina a mano armata
Stupro
Ferimento
Furto e furto ripetuto
Rapimento
Traffico di donne o bambini
Organizzazione della prostituzione
Organizzazione di spettacoli pornografici
Pubblicazione di materiale pornografico
Atti di teppismo
Disturbo dell’ordine pubblico
Distruzione o danneggiamento della proprietà pubblica o privata
Sabotaggio controrivoluzionario
Incendio
Traffico e spaccio di droga
Corruzione
Truffa
Concussione
Frode
Usura
Contraffazione
Rivendita di ricevute Iva
Evasione fiscale
Furto o fabbricazione illegale di armi
Possesso o vendita illegali di armi e munizioni
Furto o contrabbando di tesori nazionali e reliquie culturali
Spaccio di denaro falso
Ricatto.

Fonte: http://www.navecorsara.it

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ITALIA-CINA

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