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martedì 5 agosto 2008
Attentato in Cina, 16 poliziotti uccisi nello Xinjiang!
A quattro giorni dall'apertura delle Olimpiadi di Pechino 2008 gli incubi dei dirigenti cinesi si trasformano in realtà: è allarme terrorismo. Almeno sedici poliziotti sono rimasti uccisi e 16 feriti in un attentato contro un commissariato di Kashgar nello Xinjiang, la regione nordoccidentale a maggioranza musulmana abitata dagli Uiguri. Secondo l'agenzia cinese Xinhua, due uomini hanno usato un camion come un ariete per penetrare nell'edifico per poi lanciare due granate. Gli assalitori sono stati fermati alle 8 locali, le 2 in Italia. I primi lanci della Xinhua erano contraddittori: parlavano di due veicoli coinvolti. Alcuni minuti prima l'agenzia Nuova Cina aveva dato notizia di un'esplosione nello Xinjiang, senza fornire ulteriori dettagli. Da Urumqi, capitale della regione, un funzionario dell'Ufficio di Propaganda del governo regionale ha spiegato che l'esplosione è avvenuta nei pressi dell'Ospedale per le Minoranze di Kashgar, aggiungendo che sue tutte le strade sono stati allestiti posti di blocco e che la polizia sta indagando sulla vicenda. Negli ultimi mesi le autorità cinesi avevano ripetutamente messo in guardia contro possibili attentati dagli estremisti musulmani dello Xinjiang, in vista delle olimpiadi. Gli uighuri, un'etnia turcofona di religione musulmana, sono gli abitanti originari della regione Autonoma dello Xinjiang, nel nordovest della Cina, che chiamano il loro paese Turkestan dell' Est. Oggi sono circa il 44 per cento dei 20 milioni di abitanti della regione e su di loro negli ultimi 60 anni si è abbattuta la repressione cinese. Per il Comitato olimpico internazionale non è possibile al momento stabilire se vi sia un legame fra l'attentato e i Giochi olimpici. Secondo Emmanuelle Tonge, portavoce del Cio si tratta di «un incidente avvenuto in una regione della Cina e non si deve stabilire automaticamente un legame con i Giochi». Uno dei massimi esperti cinesi di terrorismo, il professore Li Wer dell' Istituto per le relazioni internazionali, ha affermato invece di ritenere «possibile» che altri attentati si verifichino nel periodo olimpico in altre città della Cina.Fonte: http://www.unita.it
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lunedì 4 agosto 2008
Cina: fucilati 2 sospetti terroristi...
(ANSA) - PECHINO, 12 LUG - Sono stati fucilati in Cina due uighuri (musulmani dello Xinjiang) condannati a morte per aver fatto parte di un gruppo di terroristi. Lo riporta Radio Free Asia, spiegando che l'esecuzione e' avvenuta subito dopo la sentenza di condanna di un tribunale del popolo dello Xinjiang. Altri 15 imputati hanno avuto condanne che vanno dall'ergastolo ai dieci anni. Tutti sarebbero stati arrestati nel 2007 sulle montagne del Pamir in un presunto campo di addestramento di terroristi islamici.
Fonte: http://news.excite.it
Cosa Nostra: le regole della mafia siciliana...
Nella sentenza si descrive l'organizzazione di Cosa Nostra, secondo le testimonianze di Buscetta. Tra le molte leggi non scritte che regolano il comportamento mafioso, vi è anche l'obbligo di dire sempre la verità allorché si parla fra “uomini d'onore” di questioni comuni.La vita di Cosa Nostra (la parola mafia è un termine letterario che non viene mai usato dagli aderenti a questa organizzazione criminale) è disciplinata da regole rigide non scritte ma tramandate oralmente, che ne regolamentano l'organizzazione e il funzionamento ("nessuno troverà mai elenchi di appartenenza a Cosa Nostra, né attestati di alcun tipo, né ricevute di pagamento di quote sociali"), e così riassumibili, sulla base di quanto emerge dal lungo interrogatorio del Buscetta.- La cellula primaria è costituita dalla "famiglia", una struttura a base territoriale, che controlla una zona della città o un intero centro abitato da cui prende il nome (famiglia di Porta Nuova, famiglia di Villabate e così via).- La famiglia è composta da "uomini d'onore" o "soldati" coordinati, per ogni gruppo di dieci, da un "capodecina" ed è governata da un capo di nomina elettiva, chiamato anche "rappresentante", il quale è assistito da un "vice capo" e da uno o più "consiglieri".Qualora eventi contingenti impediscano o rendano poco opportuna la normale elezione del capo da parte dei membri della famiglia, la "commissione" provvede alla nomina di "reggenti" che gestiranno pro tempore la famiglia fino allo svolgimento delle normali elezioni. Ad esempio, ha ricordato Buscetta, la turbolenta "famiglia" di Corso dei Mille è stata diretta a lungo dal reggente Francesco Di Noto fino alla sua uccisione (avvenuta il 9.6.1981); alla sua morte è divenuto rappresentante della famiglia Filippo Marchese.Analogamente, a seguito dell'uccisione di Stefano Bontate, rappresentante della famiglia di S. Maria di Gesù, la commissione nominava reggenti Pietro Lo Iacono e Giovanbattista Pullarà, mentre a seguito dell'uccisione di Salvatore Inzerillo, capo della famiglia di Passo di Rigano, veniva nominato reggente Salvatore Buscemi; così, dopo la scomparsa di Giuseppe Inzerillo, padre di Salvatore e capo della famiglia di Uditore, veniva nominato reggente Bonura Francesco ed analogamente, dopo l'espulsione da Cosa Nostra di Gaetano Badalamenti, capo della famiglia di Cinisi, veniva nominato reggente Antonino Badalamenti, cugino del vecchio capo.- L'attività delle famiglie è coordinata da un organismo collegiale, denominato "commissione" o "cupola", di cui fanno parte i "capi-mandamento" e, cioè, i rappresentanti di tre o più famiglie territorialmente contigue. Generalmente, il "capo mandamento" è anche il capo di una delle famiglie, ma, per garantire obiettività nella rappresentanza degli interessi del "mandamento" ed evitare un pericoloso accentramento di poteri nella stessa persona, talora è accaduto che la carica di "capo mandamento" fosse distinta da quella di "rappresentante" di una famiglia.- La commissione è presieduta da uno dei capi-mandamento: in origine, forse per accentuarne la sua qualità di primus inter pares, lo stesso veniva chiamato "segretario" mentre, adesso, è denominato "capo". La commissione ha una sfera d'azione, grosso modo, provinciale ed ha il compito di assicurare il rispetto delle regole di Cosa Nostra all'interno di ciascuna famiglia e, soprattutto, di comporre le vertenze fra le famiglie.- Da tempo (le cognizioni del Buscetta datano dagli inizi degli anni '50) le strutture mafiose sono insediate in ogni provincia della Sicilia, ad eccezione (almeno fino ad un certo periodo) di quelle di Messina e di Siracusa.- La mafia palermitana ha esercitato, pur in mancanza di un organismo di coordinamento, una sorta di supremazia su quella delle altre province, nel senso che queste ultime si adeguavano alle linee di tendenza della prima.- In tempi più recenti, ed anche in conseguenza del disegno egemonico prefissosi dai Corleonesi, è sorto un organismo segretissimo, denominato "interprovinciale", che ha il compito di regolare gli affari riguardanti gli interessi di più province.- Non meno minuziose sono le regole che disciplinano l' "arruolamento" degli "uomini d'onore" ed i loro doveri di comportamento.I requisiti richiesti per l'arruolamento sono: salde doti di coraggio e di spietatezza (si ricordi che Leonardo Vitale divenne "uomo d'onore" dopo avere ucciso un uomo); una situazione familiare trasparente (secondo quel concetto di "onore" tipicamente siciliano, su cui tanto si è scritto e detto) e, soprattutto, assoluta mancanza di vincoli di parentela con "sbirri".La prova di coraggio ovviamente non è richiesta per quei personaggi che rappresentano, secondo un'efficace espressione di Salvatore Contorno, la "faccia pulita" della mafia e cioè professionisti, pubblici amministratori, imprenditori che non vengono impiegati generalmente in azioni criminali ma prestano utilissima opera di fiancheggiamento e di copertura in attività apparentemente lecite.Il soggetto in possesso di questi requisiti viene cautamente avvicinato per sondare la sua disponibilità a far parte di un'associazione avente lo scopo di "proteggere i deboli ed eliminare le soverchierie". Ottenutone l'assenso, il neofita viene condotto in un luogo defilato dove, alla presenza di almeno tre uomini della famiglia di cui andrà a far parte, si svolge la cerimonia del giuramento di fedeltà a Cosa Nostra. Egli prende fra le mani un'immagine sacra, la imbratta con il sangue sgorgato da un dito che gli viene punto, quindi le dà fuoco e la palleggia fra le mani fino al totale spegnimento della stessa, ripetendo la formula del giuramento che si conclude con la frase: "Le mie carni debbono bruciare come questa santina se non manterrò fede al giuramento".Lo status di "uomo d'onore", una volta acquisito, cessa soltanto con la morte; il mafioso, quali che possano essere le vicende della sua vita, e dovunque risieda in Italia o all'estero, rimane sempre tale.Proprio a causa di queste rigide regole Antonino Rotolo era inviso a Stefano Bontate (oltre che per la sua stretta amicizia con Giuseppe Calò), essendo cognato di un vigile urbano; e lo stesso Buscetta veniva espulso dalla mafia per avere avuto una vita familiare troppo disordinata e, soprattutto, per avere divorziato dalla moglie.Pare, comunque, che adesso, a detta del Buscetta, a causa della degenerazione di Cosa Nostra, i criteri di arruolamento siano più larghi e che non si vada più tanto per il sottile nella scelta dei nuovi adepti.L' "uomo d'onore", dopo avere prestato giuramento, comincia a conoscere i segreti di Cosa Nostra e ad entrare in contatto con gli altri associati.Soltanto i Corleonesi e la famiglia di Resuttana non hanno mai fatto conoscere ufficialmente i nomi dei propri membri ai capi delle altre famiglie, mentre era prassi che, prima che un nuovo adepto prestasse giuramento, se ne informassero i capi famiglia, anche per accertare eventuali motivi ostativi al suo ingresso in Cosa Nostra.In ogni caso, le conoscenze del singolo "uomo d'onore" sui fatti di Cosa Nostra dipendono essenzialmente dal grado che lo stesso riveste nell'organizzazione, nel senso che più elevata è la carica rivestita maggiori sono le probabilità di venire a conoscenza di fatti di rilievo e di entrare in contatto con "uomini d'onore" di altre famiglie.Ogni "uomo d'onore" è tenuto a rispettare la "consegna del silenzio": non può svelare ad estranei la sua appartenenza alla mafia, né, tanto meno, i segreti di Cosa Nostra; è, forse, questa la regola più ferrea di Cosa Nostra, quella che ha permesso all'organizzazione di restare impermeabile alle indagini giudiziarie e la cui violazione è punita quasi sempre con la morte.All'interno dell'organizzazione, poi, la loquacità non è apprezzata: la circolazione delle notizie è ridotta al minimo indispensabile e l' "uomo d'onore" deve astenersi dal fare troppe domande, perché ciò è segno di disdicevole curiosità ed induce in sospetto l'interlocutore.Quando gli "uomini d'onore" parlano tra loro, però, di fatti attinenti a Cosa Nostra hanno l'obbligo assoluto di dire la verità e, per tale motivo, è buona regola, quando si tratta con "uomini d'onore" di diverse famiglie, farsi assistere da un terzo consociato che possa confermare il contenuto della conversazione. Chi non dice la verità viene chiamato "tragediaturi" e subisce severe sanzioni che vanno dalla espulsione (in tal caso si dice che l' "uomo d'onore è posato") alla morte.Così, attraverso le regole del silenzio e dell'obbligo di dire la verità, vi è la certezza che la circolazione delle notizie sia limitata all'essenziale e, allo stesso tempo, che le notizie riferite siano vere.Questi concetti sono di importanza fondamentale per valutare le dichiarazioni rese da "uomini d'onore" e, cioè, da membri di Cosa Nostra e per interpretarne atteggiamenti e discorsi. Se non si prende atto della esistenza di questo vero e proprio "codice" che regola la circolazione delle notizie all'interno di "Cosa Nostra" non si riuscirà mai a comprendere come mai bastino pochissime parole e perfino un gesto, perché uomini d'onore si intendano perfettamente tra di loro.Così, ad esempio, se due uomini d'onore sono fermati dalla polizia a bordo di un'autovettura nella quale viene rinvenuta un'arma, basterà un impercettibile cenno d'intesa fra i due, perché uno di essi si accolli la paternità dell'arma e le conseguenti responsabilità, salvando l'altro.E così, se si apprende da un altro uomo d'onore che in una determinata località Tizio è "combinato" (e, cioè, fa parte di Cosa Nostra), questo è più che sufficiente perché si abbia la certezza assoluta che, in qualsiasi evenienza ed in qualsiasi momento di emergenza, ci si potrà rivolgere a Tizio, il quale presterà tutta l'assistenza necessaria. [...]Proprio in ossequio a queste regole di comportamento sia Buscetta sia Contorno, come si vedrà, hanno posto una cura esasperata nell'indicare come "uomini d'onore" soltanto i personaggi dei quali conoscevano con certezza l'appartenenza a Cosa Nostra, e cioè soltanto coloro che avevano avuto presentati come "uomini d'onore" e coloro che avevano avuto indicati come tali da altri uomini d'onore, anche se personalmente essi non li avevano mai incontrati.Anche la "presentazione" di un uomo d'onore è puntualmente regolamentata dal codice di Cosa Nostra allo scopo di evitare che nei contatti fra i membri dell'organizzazione si possano inserire estranei.E' escluso, infatti, che un "uomo d'onore" si possa presentare da solo, come tale, ad un altro membro di Cosa Nostra, poiché, in tal modo, nessuno dei due avrebbe la sicurezza di parlare effettivamente con un "uomo d'onore". Occorre, invece, l'intervento di un terzo membro dell'organizzazione che li conosca entrambi come "uomini d'onore" e che li presenti tra loro in termini che diano l'assoluta certezza ad entrambi dell'appartenenza a Cosa Nostra dell'interlocutore. E, così, come ha spiegato Contorno, è sufficiente che l'uno venga presentato all'altro, con la frase "Chistu è a stissa cosa", (questo è la stessa cosa), perché si abbia la certezza che l'altro sia appartenente a Cosa Nostra.Altra regola fondamentale di Cosa Nostra è quella che sancisce il divieto per l'uomo di trasmigrare da una famiglia all'altra.Questa regola, però, riferisce Buscetta, non è stata più rigidamente osservata dopo le vicende della "guerra di mafia" che hanno segnato l'inizio dell'imbastardimento di Cosa Nostra: infatti, Salvatore Montalto, che era il vice di Salvatore Inzerillo (ucciso nella guerra di mafia) nella "famiglia" di Passo di Rigano, è stato nominato, proprio come premio per il suo tradimento, rappresentante della "famiglia" di Villabate.Il mafioso, come si è accennato, non cessa mai di esserlo quali che siano le vicende della sua vita.L'arresto e la detenzione non solo non spezzano i vincoli con Cosa Nostra ma, anzi, attivano quell'indiscussa solidarietà che lega gli appartenenti alla mafia: infatti gli "uomini d'onore" in condizioni finanziarie disagiate ed i loro familiari vengono aiutati e sostenuti, durante la detenzione, dalla "famiglia" di appartenenza; e spesso non si tratta di aiuto finanziario di poco conto, se si considera che, come è notorio, "l'uomo d'onore rifiuta il vitto del Governo" e, cioè, il cibo fornito dall'amministrazione carceraria, per quel senso di distacco e di disprezzo generalizzato che la mafia nutre verso lo Stato.Unica conseguenza della detenzione, qualora a patirla sia un capo famiglia, è che questi, per tutta la durata della carcerazione, viene sostituito dal suo vice in tutte le decisioni, dato che, per la sua situazione contingente, non può essere in possesso di tutti gli elementi necessari per valutare adeguatamente una determinata situazione e prendere, quindi, una decisione ponderata. Il capo, comunque, continuando a mantenere i suoi collegamenti col mondo esterno, è sempre in grado di far sapere al suo vice il proprio punto di vista, che però non è vincolante, e, cessata la detenzione, ha il diritto di pretendere che il suo vice gli renda conto delle decisioni adottate.Durante la detenzione è buona norma, anche se non assoluta, che l'uomo d'onore raggiunto da gravi elementi di reità non simuli la pazzia nel tentativo di sfuggire ad una condanna: un siffatto atteggiamento è indicativo della incapacità di assumersi le proprie responsabilità.Adesso, però, sembra che questa regola non sia più seguita, e, comunque, che non venga in qualche modo sanzionata, ove si consideri che sono numerosi gli esempi di detenuti sicuramente uomini d'onore, che hanno simulato la pazzia (vedi in questo procedimento gli esempi di Giorgio Aglieri, Gerlando Alberti, Tommaso Spadaro, Antonino Marchese, Gaspare Mutolo, Vincenzo Sinagra "Tempesta").Tutto ciò, a parere di Buscetta, è un ulteriore sintomo della degenerazione degli antichi princìpi di Cosa Nostra.Anche il modello di comportamento in carcere dell'uomo d'onore, descritto da Buscetta, è radicalmente mutato negli ultimi tempi.Ricorda infatti Tommaso Buscetta che in carcere gli "uomini d'onore" dovevano accantonare ogni contrasto ed evitare atteggiamenti di aperta rivolta nei confronti dell'autorità carceraria. Al riguardo, cita il suo stesso esempio: si era trovato a convivere all'Ucciardone, per tre anni, con Giuseppe Sirchia, vice di Cavataio ed autore materiale dell'omicidio di Bernardo Diana, il quale era vice del suo grande amico, Stefano Bontate; ma, benché non nutrisse sentimenti di simpatia nei confronti del suo compagno di detenzione, lo aveva trattato senza animosità, invitandolo perfino al pranzo natalizio.Questa norma, però, non è più rispettata, come si evince dal fatto che Pietro Marchese, uomo d'onore della famiglia di Ciaculli, è stato ucciso il 25.2.1982 proprio all'interno dell'Ucciardone, su mandato della "commissione", da altri detenuti.Unica deroga al principio della indissolubilità del legame con Cosa Nostra è la espulsione dell'uomo d'onore, decretata dal "capo famiglia" o, nei casi più gravi, dalla "commissione" a seguito di gravi violazioni del codice di Cosa Nostra, e che non di rado prelude all'uccisione del reo. L'uomo d'onore espulso, nel lessico mafioso, è "posato".Ma neanche l'espulsione fa cessare del tutto il vincolo di appartenenza all'organizzazione, in quanto produce soltanto un effetto sospensivo che può risolversi anche con la reintegrazione dell'uomo d'onore.Pertanto l'espulso continua ad essere obbligato all'osservanza delle regole di Cosa Nostra. Lo stesso Buscetta, a causa delle sue movimentate vicende familiari, era stato "posato" dal suo capo famiglia Giuseppe Calò, il quale poi gli aveva detto di non tenere conto di quella sanzione ed anzi gli aveva proposto di passare alle sue dirette dipendenze. Anche Gaetano Badalamenti, nel 1978, benché fosse capo di Cosa Nostra, era stato espulso dalla "commissione", per motivi definiti gravissimi, su cui però Buscetta non ha saputo (o voluto) dire nulla.L'uomo d'onore posato non può trattenere rapporti con altri membri di Cosa Nostra, i quali sono tenuti addirittura a non rivolgergli la parola. E proprio basandosi su questa regola, Buscetta si era mostrato piuttosto scettico sulla possibilità che il Badalamenti, benché "posato", fosse coinvolto nel traffico di stupefacenti con altri uomini d'onore; sennonché, venuto a conoscenza delle prove obiettive acquisite dall'ufficio, si è dovuto ricredere ed ha commentato che "veramente il danaro ha corrotto tutto e tutti".Anche la vicenda della espulsione di Buscetta da parte di Calò appare nebulosa.Il Buscetta, infatti, aveva avuto comunicata la sua espulsione addirittura da Gaetano Badalamenti e durante la detenzione non aveva ricevuto, come d'uso per i "posati", alcun aiuto finanziario da parte della sua "famiglia"; per contro il suo capo famiglia Pippo Calò lo aveva esortato a non tenere conto di quanto andava dicendo quel "tragediaturi" di Badalamenti e si era scusato per la mancanza di aiuto finanziario, assumendo che non era stato informato; aveva notato inoltre che in carcere gli altri uomini d'onore intrattenevano con lui normali rapporti, come se nulla fosse accaduto.Altra regola fondamentale di Cosa Nostra è l'assoluto divieto per l'"uomo d'onore" di fare ricorso alla giustizia statuale. Unica eccezione, secondo il Buscetta, riguarda i furti di veicoli, che possono essere denunziati alla polizia giudiziaria per evitare che l'uomo d'onore, titolare del veicolo rubato, possa venire coinvolto in eventuali fatti illeciti commessi con l'uso dello stesso; naturalmente, può essere denunciato soltanto il fatto obiettivo del furto, ma non l'autore.Del divieto di denunciare i furti, vi è in atti un riscontro persino umoristico riguardante il capo della "commissione", Michele Greco. Carla De Marie, titolare di una boutique a Saint Vincent, era solita fornire alla moglie di Michele Greco capi di abbigliamento che spediva a Palermo, tramite servizio ferroviario, regolarmente assicurati contro il furto. Una volta, il pacco era stato sottratto ad opera di ignoti durante il trasporto, e la De Maria aveva più volte richiesto telefonicamente alla signora Greco di denunciare il furto, essendo ciò indispensabile perché la compagnia assicuratrice rifondesse il danno. Ebbene, la moglie di Michele Greco, dopo di avere reiteratamente fatto presente alla De Marie che il marito non aveva tempo per recarsi alla polizia per presentare la denunzia, aveva preferito pagare i capi di abbigliamento, nonostante che non li avesse mai ricevuti.
Fonte: http://digilander.libero.it
Appunti a proposito di libertà di informazione in terra di Mafia!
Non ha senso parlare solo dell'informazione in Sicilia, delle esperienze positive e negative consumatesi nell'isola, degli otto giornalisti uccisi dalla mafia (voglio ricordarli: Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Peppino Impastato, Mario Francese, Giuseppe Fava, Mauro Rostagno, Beppe Alfano), della Radio dei poveri Cristi di Danilo Dolci durata appena un giorno, di Radio Aut e di Tele Jato ecc. ecc. Lo sguardo va necessariamente allargato sul piano nazionale e per non sfondare porte aperte, più che riferirmi alle grandi testate, più o meno inginocchiate davanti al potere democristiano prima e berlusconiano dopo, mi riferirò alla stampa di sinistra da cui era e sarebbe lecito attendersi qualcosa di più e di diverso. Un po' di storia Cominciamo dall'assassinio di Peppino: 9 maggio 1978, il Centro siciliano di documentazione c'era già dall'anno prima. La stampa che allora definimmo "di regime" scrisse che Peppino era un terrorista e un suicida. Solo il "Quotidiano dei lavoratori" (tra gli altri Pino Ferraris, che non era un giornalista) e "Lotta continua" ci diedero una mano per smontare la montatura imbastita da carabinieri e magistrati. Ma della redazione di "Lotta continua" nessuno venne in Sicilia. Non venne il direttore Enrico Deaglio, non vennero i vecchi compagni di Peppino, come Mauro Rostagno, a cui Peppino era legatissimo. Ho visto per l'ultima volta Mauro tre mesi prima che l'uccidessero e gli ho accennato a Peppino. Ho capito che il discorso lo infastidiva e ho preferito non insistere. "Il manifesto" diede la notizia in modo incredibile. G. R. (Gianni Riotta), che successivamente sarebbe asceso ai fasti del "Corriere", dell'editoria e della televisione (dove si dice che come direttore del Tg1 abbia archiviato il "panino": la rivoluzione che tutti auspicavamo!), scrisse una noticina striminzita: polizia e carabinieri parlano di attentato, i compagni dicono: "È stata la mafia". Tutto qui. La notizia non sarebbe stata ripresa e l'anno dopo quando preparavamo la manifestazione nazionale contro la mafia, la prima della storia d'Italia, "il manifesto" non dedicò neppure una riga. Il giornale ha avuto il ruolo che sappiamo su tantissimi temi e abbiamo seguito con trepidazione quanto è successo a Giuliana Sgrena che ho conosciuto ai tempi di Comiso nei primi anni '80, e a Nicola Calipari, caduto nella guerra infinita che insanguina l'Iraq, ma su mafia, Sicilia e Mezzogiorno "il manifesto" ha sempre scritto poco e male. Bisognerà aspettare molti anni per trovare qualche pezzo di Guido Ruotolo sulla vicenda processuale che faticosamente cercavamo di portare avanti assieme ai familiari e ai compagni di Peppino. A livello politico gli unici che ci aiutavano erano i compagni di Democrazia Proletaria, Giovanni Russo Spena, da allora fino alla relazione della Commissione antimafia sul "caso Impastato" (dopo si è eclissato assieme a tutti i "rifondati", che evidentemente preferiscono altri interlocutori, in nome di un movimentismo senza strategia e dell'uso alternativo dello sfintere) e per un po' di tempo Silvano Miniati e Guido Pollice che mi affidò il compito di scrivere gran parte della relazione di minoranza della Commissione antimafia del 1985. Ma torniamo alla stampa o più in generale all'informazione. 1979, l'anno dell'uccisione di Mario Francese, Boris Giuliano, Cesare Terranova e Lenin Mancuso. A Palermo, sotto i portici di piazzale Ungheria il Centro espone una mostra fotografica, con fotografie di Letizia Battaglia, Franco Zecchin e altri. Passa Joe Marrazzo, il notissimo giornalista televisivo. Ci chiede di poter riprendere la mostra e intervista le persone che la guardano. Intervista Letizia Battaglia e me. Ci chiede di portare la mostra a Corleone e fa parecchie interviste. Viene fuori un servizio interessante, ma dell'intervista a Letizia viene trasmessa una battutina sulla paura, non c'è traccia della mia, in cui parlavo del lavoro del Centro, che aveva già fatto il convegno nazionale "Portella della Ginestra: una strage per il centrismo", in cui per primi e poi per anni da soli sostenevamo la valenza strategica della strage, mentre la storiografia ufficiale parlava della violenza come espressione della crisi e dell'isolamento del blocco agrario, che invece si apprestava a vincere mentre avrebbero perso il movimento contadino e le sinistre. Il Centro aveva promosso nel maggio del '79, primo anniversario dell'uccisione di Peppino, la manifestazione nazionale contro la mafia, ma evidentemente queste informazioni "non fanno notizia". Scrivo una lettera di protesta: ci avete presentati come portatori di pannelli, ma la cosa si ferma lì. "Samarcanda", la notissima trasmissione di Santoro, non ha mai dedicato un secondo al Centro mentre sono state dedicate ore di trasmissione a Leoluca Orlando e ai suoi amici, tra cui c'erano Carmine Mancuso passato dopo qualche tempo a Forza Italia, e Padre Pintacuda, che allora sosteneva che il "sospetto è l'anticamera della verità", successivamente passato nei dintorni di Forza Italia. Quando è stato ucciso Libero Grassi (1991) pensavamo che ci si desse qualche spazio: assieme ai Verdi avevamo organizzato l'unica iniziativa pubblica per sostenerlo (un'assemblea nella sala delle lapidi: eravamo solo in trenta, vistosamente assenti i devoti di Orlando) ma i redattori della trasmissione non lo sapevano. 12 marzo 1992: uccidono Salvo Lima. Su Lima avevamo redatto due dossier, uno presentato prima a Roma e poi a Strasburgo nel 1984, con l'allora giovanissimo Claudio Fava de "I siciliani", una rivista che costituisce una delle pagine più significative del giornalismo d'inchiesta non solo in Sicilia ma in Italia (a proposito: i libri di Giuseppe Fava sono da tempo introvabili. Bisognerebbe fare una nuova edizione di tutte le sue opere). Il secondo dossier su Lima fu presentato a Roma da Giovanni Russo Spena e da me nel 1989. Lima aveva risposto per iscritto al primo dossier, un caso unico e debbo dire che la risposta era molto civile. Subito dopo l'assassinio di Lima "Samarcanda" va in onda da Palermo al Foro Italico, mi invitano ad andare, vado con i due dossier, parlo con Mannoni, non sapeva nulla dei dossier ma mi dice che mi darà la parola, attendo invano per due o tre ore e tolgo il disturbo, anche perché dalla folla dei presenti si levava un applauso, sciagurato, alla morte di Lima. Febbraio 1995. Dalla piazza di Terrasini va in onda "Tempo reale". Tutto il tempo è dedicato al sindaco Manlio Mele che accusava, assieme ad Orlando, il maresciallo Lombardo, suicida da lì a poco. Nelle vicinanze della piazza c'era la sede di Radio Aut. Nessuno parla di Peppino Impastato e dei suoi compagni. Neppure quando uno dalla piazza grida: "Qui non è stato ucciso nessuno". I giornalisti del giro santoriano evidentemente non sapevano chi era Peppino Impastato. Anche loro per saperne qualcosa dovranno attendere il film, che ne darà un'icona da Peter Pan di provincia. Sulla Rete tre, ai tempi di Sandro Curzi, per qualche anno c'è stato "Telefono giallo" di Corrado Augias. Un giornalista si presenta al Centro e ci chiede di collaborare a una puntata su Peppino Impastato. Collaboriamo, ma poi il giornalista ci comunica che la trasmissione su Impastato non ci sarà. Alla Rai, dopo il film su Peppino ci sono state parecchie interviste a Felicia e a Giovanni ma come Centro non abbiamo avuto molta fortuna, né prima né dopo. Qualche esempio. Trasmissione di Minoli (non ricordo come si chiamava). Viene al Centro la De Palma, una giornalista bravissima, purtroppo morta prematuramente, che ci dedica più di due ore di registrazione per un'intervista a 360 gradi: su Lima, sui Salvo ecc. ecc. Poi ci telefona, mortificatissima, dicendo che Minoli non trasmetterà nulla. Va in onda Nicola Tranfaglia che ha curato un libro in cui su Lima scrive Vasile che, da buon ex pci, ignora i nostri dossier e il voto dell'allora eurodeputato comunista De Pasquale contro la mozione presentata da Emilio Molinari sui rapporti di Lima con la mafia. "Elmo di Scipio" di Deaglio. Vengono al Centro due giornaliste giovanissime. Quasi tre ore di registrazione. Trasmettono solo una battutina di Anna davanti all'albero Falcone. Riprendono gli attori che recitano i versi del mio Ricordati di ricordare, senza dire di chi è. Su Impastato, sulla relazione della Commissione parlamentare sul depistaggio delle indagini, costituitasi su nostra proposta e ai cui lavori abbiamo dato un contributo decisivo, parlano altri che non hanno avuto nessun ruolo, ma evidentemente sono più "telegenici". "Primo piano". Va in onda uno speciale dopo la proiezione de "I cento passi". Roberto Scardova è venuto al Centro, mi ha intervistato, gli abbiamo dato il recapito di Felicia. Telefona che della mia intervista non sarà trasmesso neppure un secondo, perché si deve dare la parola a Gigi Lo Cascio, l'attore che interpretava Peppino, e sulla relazione della Commissione antimafia, che senza il Centro non si sarebbe mai fatta, debbono parlare in tandem Beppe Lumia e Russo Spena. Da qualche tempo chiediamo alla Rai di fare un video su Peppino e sul dopo, che rimane quasi sconosciuto (il film si ferma al funerale), ma finora non si è potuto realizzare. È andata e va meglio con altre televisioni, dalla Spagna alla Finlandia agli Stati Uniti all'Olanda e alla Svizzera, che spesso ci mandano le cassette: una forma di emigrazione mediatica che ci porta a pensare che non sarebbe una cattiva idea togliere le tende dal paesetto Italia. Sull'Ordine dei giornalisti e su Magistratura Democratica Nel novembre del 1997 l'Ordine dei giornalisti ha iscritto Peppino nell'elenco dei giornalisti professionisti e in seguito alle condanne di Claudio Riolo e mia per diffamazione a mezzo stampa in seguito alle citazioni in giudizio civile di Francesco Musotto e Calogero Mannino abbiamo organizzato delle iniziative di dibattito e riflessione. Nel dicembre 2003 abbiamo parlato di "Libertà di critica, libertà di ricerca", in un seminario nazionale organizzato assieme alla Facoltà di Lettere, all'associazione Articolo 21, a Libera e a Magistratura Democratica. Abbiamo parlato dei disegni di legge in discussione, che non promettono nulla di buono. Gli atti del convegno sono stati raccolti in volume, ma le nostre proposte (per esempio, togliere la competenza su temi come questi alla giurisdizione civile e penale e attribuirla a un giurì d'onore; prevedere come sanzione la replica, la correzione, l'integrazione, non la pena pecuniaria che riduce l'onorabilità delle persone a un genere da supermercato) non hanno avuto seguito. Una parentesi sui nostri rapporti con Magistratura Democratica. Ottimi nei primi anni, con la nostra partecipazione al convegno nazionale del 1980 (i relatori mi chiesero di utilizzare miei scritti senza citarmi, perché temevano un'eccessiva politicizzazione, dopo qualcuno di loro ha lasciato la toga per la politica) e a un seminario nazionale del 1982, inesistenti per circa vent'anni (era il periodo in cui l'ipergarantismo, dettato dalla diffidenza per un'estensione alla mafia del "teorema Calogero" elaborato per i terroristi, in Md era alle stelle), ripresi negli ultimi anni, con i convegni nazionali del 2001 e del 2005. Dopo l'infatuazione per Arlacchi e le sue teorie sulla mafia inesistente come realtà organizzata (per convincersi dell'esistenza della mafia strutturata doveva attendere le dichiarazioni di Calderone), sulla mafia tradizionale in competizione per l'onore e la mafia imprenditrice che scopre la competizione per la ricchezza solo negli anni '70, che sono delle emerite sciocchezze (ma nel volume che raccoglieva gli atti del seminario del 1982 l'opera arlacchiana veniva definita "essenziale per la comprensione del fenomeno mafioso" e Giuseppe Borré nell'introduzione faceva continui riferimenti all'Arlacchi e ignorava completamente la mia relazione, che ho riletto in questi giorni e sembra scritta oggi), le mie analisi sulla mafia come realtà complessa, come soggetto politico, sul blocco sociale egemonizzato dalla borghesia mafiosa sembrerebbero entrate in circolo, ma mi pare che si stia facendo strada un'altra infatuazione a base di Supermafia planetaria e onnipotente e di "voglia di mafia", espressione prescientifica che lascerei al linguaggio popolare per designare i desideri alimentari delle donne incinte. Nel convegno su "Mafia e potere" del 18 e 19 febbraio 2005, conclusosi con ovazioni a Orlando anche da parte di magistrati che evidentemente hanno dimenticato i suoi attacchi a Falcone, si è discusso dell'esito del processo ad Andreotti. Rimango del mio avviso: il processo ha avuto una conclusione in piena coerenza con il "barcamenismo" italico. Si parla di reato commesso fino al 1980, con una prescrizione calcolata al minuto secondo e un'assoluzione per insufficienza di prove per gli anni successivi che non poteva non avallare la canonizzazione di Andreotti, già avviata ad opera dello stesso Santo Padre con l'abbraccio in occasione della santificazione di Padre Pio, che è il massimo che la Chiesa possa offrire, se nella classifica della devozione il frate con le stimmate ha battuto tutti, compreso Gesù Cristo. Il rapporto di Andreotti con Salvo Lima, e quindi indirettamente con la mafia, è documentato fino alla morte di quest'ultimo: non sarà stato rilevante penalmente ma resta gravissimo sul piano etico-politico. Comunque, insistere sulle colpe di Andreotti ormai mi pare in ritardo con la storia. Sulla scena ci sono ben altri personaggi che si ritengono al di sopra e al di fuori della giustizia e che sono un pericolo per la democrazia. Ma la vulgata vuole che bisogna stare attenti a non demonizzare troppo, altrimenti Berlusconi diventa invincibile... Sulle riviste Qualche parola sulle riviste teoriche della sinistra, anche se hanno una scarsissima diffusione. Sulle pagine di "Marx 101" le mie riflessioni su mafia e dintorni hanno avuto un certo spazio, e anche su "AltrEuropa" e su "Alternative", di cui scrissi l'editoriale programmatico del primo numero. Poi è successo qualcosa. Un mio pezzo per una progettata rubrica di "AltrEuropa", in cui esprimevo la mia contrarietà all'abolizione dell'ergastolo per stragisti e mafiosi, è stato censurato. La rubrica non è nata e ho invitato i compagni della redazione a fare una letterina a Fidel Castro per chiedergli l'abolizione della pena di morte a Cuba, dove Fidel l'ha applicata anche ad avversari politici come Ochoa, condannato a morte per un traffico di droga in cui era coinvolto pure il fratello del dittatore, ovviamente scagionato. Proposta non accolta e fine dei rapporti. Per la nuova serie di "Alternative" mi sono visto retrocesso dal comitato di redazione al comitato scientifico, che per tutte le riviste è solo un elenco di nomi, più o meno prestigiosi, che non contano nulla per la linea della rivista. Per la serie attuale di "Alternative" non mi hanno neppure informato. Lo stalinismo è un vizio duro a morire anche per chi si professa convertito alla nonviolenza. Sulla "Rivista del Manifesto" nel settembre 2001 ho scritto un pezzo sulle elezioni regionali, ponendo alcuni problemi sulla sinistra in Sicilia, in crisi dagli anni '50 (la prima e ultima vittoria delle sinistre alla elezioni regionali è del 20 aprile 1947, dieci giorni prima della strage di Portella della Ginestra). La rivista doveva aprire un dibattito. C'è stato solo un intervento di Forgione che ha ignorato totalmente il mio articolo. In seguito la rivista ha chiuso le pubblicazioni. In Sicilia, tra le riviste che hanno avuto un ruolo positivo vanno ricordate "CxU", chiusa ormai da tempo, "Città d'utopia" (la redazione di Palermo era costituita dal Centro) che dopo dieci anni di ottimo lavoro ha anch'essa cessato le pubblicazioni, mentre ormai da più di trent'anni si pubblica "Segno", con cui abbiamo avuto per anni ottimi rapporti purtroppo interrotti quando infuriava l'orlandismo con il suo carico di bigottismi. La mia proposta di aprire un dibattito sul ruolo di Orlando è stata respinta, con la giustificazione che bisognava "fare quadrato" e "non rompere il fronte". Poi è accaduto quello che avevo puntualmente previsto: alle elezioni comunale del 1990 Orlando, capolista con al numero 2 Di Benedetto, legato a Lima, ha portato al massimo storico la Dc e dimezzatogli alleati di centrosinistra. Ma da allora non c'è stato nessun rapporto con i redattori della rivista. A Messina da più di dieci anni si pubblica il settimanale "Centonove", impegnato in un'attività di informazione e di inchiesta in un contesto difficile. A livello nazionale c'è "Narcomafie", con cui collaboriamo fin dal primo numero. Una rivista che bisognerebbe diffondere meglio e fare conoscere di più, ma le mie proposte, come componente del comitato scientifico, di fare delle presentazioni, costituire delle redazioni locali, non trovano grande accoglienza. La rivista è legata a Libera e qui bisognerebbe aprire un discorso su di essa, sul difficile rapporto mio e del Centro Impastato con Libera nazionale che mi ha portato nel 2005 alle dimissioni, su vicende recenti che hanno portato allo scioglimento di Libera Palermo, ma in questa sede bastano questi accenni. Negli ultimi mesi abbiamo avviato un rapporto con alcune pubblicazioni dell'area nonviolenta, con la costituzione di un gruppo di studio su nonviolenza, mafia e antimafia, che ha organizzato un convegno nazionale nel maggio 2005. Ultime notizie Tra le ultime notizie ci sono le mie dimissioni da consulente della Commissione parlamentare antimafia, del febbraio 2005. A livello nazionale, brevi su "l'Unità" e sul "Manifesto", nulla su "Liberazione". Sia chiaro: il presidente della Commissione Centaro faceva il suo mestiere e tra i suoi compiti c'era quello di "dimostrare" che la mafia è solo un fenomeno criminale e che il rapporto mafia politica è un'invenzione delle "toghe rosse". A tal fine ha utilizzato anche uno spezzone di una mia frase sul terzo livello, in cui affermavo che quella rappresentazione mediatica (la mafia come un edificio a tre piani: al pianterreno i gregari, al secondo i capi, al terzo una supercupola politico- finanziaria) è inadeguata per rappresentare un sistema relazionale che è molto più complesso e che il rapporti tra mafia, politica e istituzioni è costitutivo del fenomeno mafioso. Ha preso la prima parte e ha cestinato il resto. Un'operazione che si commenta da sé. Ma le mie dimissioni sono state soprattutto una critica aperta per le opposizioni che non hanno fatto nulla di significativo, sia perché le persone più impegnate badavano più ai problemi dei loro partiti, alle campagne elettorali, ai salti da un Parlamento all'altro, agli iperpresenzialismi mediatici, alle esibizioni teatrali ecc. ecc. che al lavoro nella Commissione, ma soprattutto perché hanno mostrato di non avere capacità e volontà adeguate per imporre contenuti e pratiche alternativi. Ho ricevuto una lettera da Centaro in cui mi comunica che "l'Ufficio di presidenza integrato dai rappresentanti dei Gruppi nella seduta del 16 febbraio ha deciso all'unanimità di concludere immediatamente il rapporto di consulenza con Lei instaurato, fra l'altro corrispondendo al Suo desiderio". Non so se sia vero, se è vero, non posso che esprimere la mia gratitudine ai rappresentanti dei gruppi parlamentari di sinistra che hanno mostrato di non meritare la collaborazione mia e del Centro Impastato. A fine legislatura è arrivata una relazione di minoranza in cui si scopiazzano malamente le mie teorizzazioni sulla borghesia mafiosa, che vengono fatte convivere con le fantasticherie sulla mafia-industria della protezione privata. In ogni caso una presa di posizione tardiva e inefficace. Qualche accenno al quadro attuale. "Telejato" deve battersi contro la Bertolino, difesa da Alfredo Galasso, vecchio compagno d'armi di Orlando e di Pintacuda nelle accuse a Falcone e ora tra i fondatori della Fondazione Caponnetto. E, con tutte le querele che le piovono addosso, mi sembra davvero un evento straordinario che "Telejato" ci sia ancora. Dei nuovi arrivati posso dire che "L'isola possibile" mi pare troppo gracile e "Casablanca" non so se avrà un futuro, come mi auguro. Noi come Centro Impastato continuiamo a lavorare, totalmente autofinanziati perché altri centri studi e fondazioni preferiscono mungere la mucca Regione Sicilia con le leggine fotografie e i rappezzi alla Finanziaria. Ci sono state polemiche, tardive, con padre Bucaro, gestore del Centro Borsellino, che è stato sciolto in seguito alle voci su una sua incriminazione per riciclaggio, non seguita da rinvio a giudizio, ma sono tanti quelli che per fare un'iniziativa hanno bisogno dei fondi pubblici arraffati in qualche modo. E finché a sinistra e nella stessa antimafia non si avrà il coraggio di cambiare registro non c'è da attendersi nulla di buono. Tranne che non faccia qualche miracolo il responsabile di "Antimafia 2000" che è un miracolo vivente, ha le mani bucate dalle stimmate (quella supplementare sulla fronte nel frattempo è sparita), sa tutto sulla Madonna di Fatima, sugli Ufo e su Nostradamus e organizza convegni con la Facoltà di Lettere di Palermo e con la partecipazione dei magistrati più impegnati. Ma mi guardo bene dal partecipare a questi spettacoli, non credo nei miracoli e di fronte a questa idea di Dio e dintorni, fatta a immagine e somiglianza di un'umanità non proprio esaltante, sono rigorosamente ateo. Per finire Dal 2002 è in atto a Palermo la lotta dei senzacasa, che è riuscita a sfuggire alla solita trappola della guerra tra poveri e si è caratterizzata come esempio di antimafia sociale, con la richiesta, in parte soddisfatta, che vengano assegnate ai senzatetto le case confiscate ai mafiosi. Ad eccezione dell'inserto palermitano del quotidiano "la Repubblica", che ha dedicato una certa attenzione, c'è stato solo qualche articoletto su "l'Unità" e sul "Manifesto", più di cronaca che di riflessione, nulla su "Liberazione", che continua a dedicare pagine su pagine all'amore anale e alla pornografia alternativa. Contenti loro... Di borghesia mafiosa ormai parlano tutti, o quasi. Ma pare che sia una teoria orfana di padre. Di recente alla nuova trasmissione di Santoro il sostituto procuratore Antonio Ingroia l'ha attribuita a innominati "sociologi", nonostante sappia perfettamente che il sociologo è stato uno ed uno solo e ha nome e cognome. Così va il mondo...Di Umberto Santino da: http://www.centroimpastato.it
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Mafia in Italia...in 15 anni non è cambiato nulla!!!
Quindici anni dopo la strage di Capaci, è tornata a Palermo Rosaria. Con il suo Manù che aveva appena quattro mesi quando restò orfano. La giovane vedova, sempre ricordata per quell'acuto dolente rivolto ai mafiosi, «Vi perdono, ma inginocchiatevi», ha scrutato per cinque giorni la città dove il marito Vito Schifani morì dilaniato con altri due colleghi per proteggere Giovanni Falcone.(...) Tornerebbe a vivere qui? «Manco morta. A Palermo sento odore di mafia, l'arroganza del quartiere, della politica ridotta ad affare, del parcheggiatore abusivo, dei commercianti meravigliati quando chiedo lo scontrino. Da sola ci starei. Per sfidare quei maledetti che condizionano pure il respiro dei nostri parenti. Qui prevale il doppio. La costa sembra bella ed è brutta per le costruzioni che la assediano. Le case sembrano brutte, ma dentro sono belle. Per nascondere, per confondere, per scansare invidie. Prevale il contrasto. Guardo e mi rattristo. Qui non cambia niente».(...) «Poteva cambiare tutto. Ma lo Stato si è fermato. I magistrati hanno ripreso a litigare fra loro. Divisi fra amici di Grasso e amici di Caselli. Ancora? Basta. (...) Lo Stato s'è fermato troppe volte. Perché lo Stato ha paura di guardarsi dentro». (...) «Ricordo l'incontro con la vedova di Pio La Torre, guardinga. Mi spiegò che eravamo vittime non di "segreti di Stato", ma di "delitti di Stato"».PENA DI MORTE IN CINA...in casi estremi è comunque una soluzione giusta?
La Cina è il paese dove si contano il maggior numero di condannati a morte, anche se mancano statistiche ufficiali in materia.Tra i circa 65 reati vi sono l’omicidio, il traffico di droga, alcuni reati economici, politici, d’opinione, il commercio di pornografia, l’uccisione di alcuni animali sacri.
La Cina è il paese dove si contano il maggior numero di condannati a morte, anche se mancano statistiche ufficiali in materia.
Tra i circa 65 reati vi sono l’omicidio, il traffico di droga, alcuni reati economici, politici, d’opinione, il commercio di pornografia, l’uccisione di alcuni animali sacri.
Sono organizzate manifestazioni di massa per la lettura della sentenza di morte e l’esecuzione è compiuta subito dopo: i condannati sono mostrati al pubblico con la testa reclinata, le mani legate dietro la schiena ed un cartello con il nome e l’indicazione dei crimini commessi legato al collo. Vi è una violazione dei diritti fondamentali: molti trascorrono il periodo che va dalla condanna a morte all’esecuzione ammanettati e coi ferri alle caviglie; Di solito vengono espiantati gli organi del condannato, ma senza chiedere il consenso alla famiglia.
Si ritiene che migliaia di persone siano giustiziate ogni anno, spesso in esecuzioni di massa e in seguito a processi sommari.Nel 1992 il 63% delle esecuzioni mondiali sono avvenute in Cina.Nel 1993 sono state emesse oltre 3760 condanne a morte e ne sono state eseguite 1831.Nel 1994 sono state emesse 2496 condanne a morte e ne sono state eseguite 1791.Nel marzo 1995 cinque persone sono state decapitate per riduzione in schiavitù di bambini e donne.
Si ritiene che migliaia di persone siano giustiziate ogni anno, spesso in esecuzioni di massa e in seguito a processi sommari.Nel 1992 il 63% delle esecuzioni mondiali sono avvenute in Cina. Nel 1993 sono state emesse oltre 3760 condanne a morte e ne sono state eseguite 1831.Nel 1994 sono state emesse 2496 condanne a morte e ne sono state eseguite 1791. Nel marzo 1995 cinque persone sono state decapitate per riduzione in schiavitù di bambini e donne. Nell’aprile 1995 è stata emessa una condanna a morte per evasione delle tasse. Nel maggio 1995 51 persone sono state condannate a morte e subito giustiziate per reati legati al traffico di droga.In tutto il 1995 sono state emesse almeno 3610 condanne e ne sono state eseguite almeno 2535.In tutto il 1996 sarebbero state emesse 6100 condanne e ne sarebbero state eseguite 4367. Nel 1997 sarebbero state eseguite almeno 1644 condanne. Amnesty Intenational, ritiene che in realtà il numero delle condanne e delle esecuzioni sia molto più elevato rispetto alle cifre in suo possesso; ciò dipende dal fatto che le autorità cinesi non pubblicano mai statistiche sulla pena di morte considerate “segreto di stato”.
Spesso l’annuncio di una condanna a morte viene fatta in luoghi pubblici e i condannati vengono esposti al pubblico e costretti ad abbassare la testa e a tenere al collo un cartello con il loro nome ed il crimine commesso. Amnesty Interntional ritiene che questo sia un trattamento crudele e degradante.
Agli imputati è spesso negato il diritto di avere un legale; quando la rappresentanza legale è concessa, gli avvocati hanno un giorno o due per preparare la difesa.
Spesso le condanne sono stabilite prima del processo da un comitato giudicatore.
Dopo la conferma di una condanna a morte gli imputati hanno da 3 a 10 giorni per ricorrere in appello. Quando non sono presentati appelli, la sentenza è automaticamente demandata all’Alto Tribunale del Popolo che prende una decisione entro un mese e mezzo. Raramente gli appelli sono accolti. La pena di morte è usata in maniera discriminatoria nei confronti delle classi sociali più basse e nella maggior parte dei casi le uniche prove contro gli imputati sono confessioni estorte sotto tortura.
Particolarmente preoccupante è la pratica piuttosto comune di prelevare gli organi da condannati a morte giustiziati, senza il loro permesso. Si ritiene che spesso siano state eseguite condanne a morte perché erano richiesti organi per trapianti.
Le autorità cinesi usano la pena di morte per creare paura.La paura dovrebbe fermare i crimini.Non lo fa. Eppure, sono giustiziate più persone in un anno in Cina che in tutto il resto del mondo. In molti casi, la pena di morte è applicata arbitrariamente senza garanzie contro errori giudiziari. La Cina continua ad allargare il numero di reati perciò è prevista la pena di morte.
A tutt’oggi, 65 reati sono punibili con la morte, e sempre più persone sono giustiziate per crimini non violenti. Gli standard internazionali stabiliscono che la pena di morte dovrebbe essere applicata solo in caso di “crimini molto gravi”.
Spesso l’annuncio di una condanna a morte viene fatta in luoghi pubblici e i condannati vengono esposti al pubblico e costretti ad abbassare la testa e a tenere al collo un cartello con il loro nome ed il crimine commesso. Amnesty Interntional ritiene che questo sia un trattamento crudele e degradante.
Agli imputati è spesso negato il diritto di avere un legale; quando la rappresentanza legale è concessa, gli avvocati hanno un giorno o due per preparare la difesa.
Spesso le condanne sono stabilite prima del processo da un comitato giudicatore.
Dopo la conferma di una condanna a morte gli imputati hanno da 3 a 10 giorni per ricorrere in appello. Quando non sono presentati appelli, la sentenza è automaticamente demandata all’Alto Tribunale del Popolo che prende una decisione entro un mese e mezzo. Raramente gli appelli sono accolti. La pena di morte è usata in maniera discriminatoria nei confronti delle classi sociali più basse e nella maggior parte dei casi le uniche prove contro gli imputati sono confessioni estorte sotto tortura.
Particolarmente preoccupante è la pratica piuttosto comune di prelevare gli organi da condannati a morte giustiziati, senza il loro permesso. Si ritiene che spesso siano state eseguite condanne a morte perché erano richiesti organi per trapianti.
Le autorità cinesi usano la pena di morte per creare paura.La paura dovrebbe fermare i crimini.Non lo fa. Eppure, sono giustiziate più persone in un anno in Cina che in tutto il resto del mondo. In molti casi, la pena di morte è applicata arbitrariamente senza garanzie contro errori giudiziari. La Cina continua ad allargare il numero di reati perciò è prevista la pena di morte.
A tutt’oggi, 65 reati sono punibili con la morte, e sempre più persone sono giustiziate per crimini non violenti. Gli standard internazionali stabiliscono che la pena di morte dovrebbe essere applicata solo in caso di “crimini molto gravi”.
Quasi ogni aspetto del modo in cui la pena di morte è applicata in Cina è caratterizzato da violazioni dei più basilari diritti umani.Ondate di esecuzioni spesso precedono i principali festival o eventi internazionali e solitamente accompagnano annunci ufficiali di campagne anti-crimine.
La pena di morte è stata largamente applicata durante le repressioni dell’opposizione.Decine di cittadini sono stati giustiziati sommariamente a Pechino e nel resto del Paese dopo la protesta del 1989 a favore della democrazia.Nazionalisti musulmani sono stati giustiziati nello Xinjiang in questi anni per supposto coinvolgimento in gruppi d’opposizione clandestini o attentati dinamitardi.
Un numero crescente di persone è giustiziato per reati relativamente modesti.Nel 1994 due contadini sono stati messi a morte nella provincia di Henan per aver rubato 36 mucche e macchinari agricoli del valore di 9.300 dollari.Una legge del 1983 permette processi sommari in casi che prevedano la pena di morte.Tali processi sono particolarmente frequenti durante campagne di “pulizia”.Ad esempio, durante manifestazioni pubbliche nella provincia di Guangxi nel giugno 1995,34 persone sono state condannate per spaccio di droga ed immediatamente giustiziate.
Gli imputati possono essere processati senza un avvocato e senza conoscere l’accusa fino al momento di entrare in tribunale. I verdetti sono spesso decisi prima del processo per via di pressioni politiche.Alcune persone sono condannate solo in base alle loro confessioni, a volte estorte sotto tortura.Le esecuzioni possono avvenire entro pochi giorni dalla sentenza.Gli appelli sono formalità e raramente hanno successo. I prigionieri condannati a morte sono incatenati dal momento della sentenza fino all’esecuzione e spesso sono esposti al pubblico prima della condanna.
I prigionieri condannati sono incatenati per tutta la loro permanenza nel carcere, non possono contattare avvocati, e la loro posta è censurata. Solo poche ore prima dell’esecuzione è detto loro del fallimento dell’appello.
In questo modo, è poco probabile che possano acconsentire liberamente al prelievo organi, ammesso che essi ne siano informati. Le strette relazioni tra tribunali ed ospedali, oltre alla segretezza che circonda il processo e all aumentato introito generato dai trapianti per gli ospedali, fanno sorgere il fondato sospetto che in alcuni casi la tempestività delle esecuzioni possa essere collegata al bisogno di organi per i trapianti.
La pena di morte è stata largamente applicata durante le repressioni dell’opposizione.Decine di cittadini sono stati giustiziati sommariamente a Pechino e nel resto del Paese dopo la protesta del 1989 a favore della democrazia.Nazionalisti musulmani sono stati giustiziati nello Xinjiang in questi anni per supposto coinvolgimento in gruppi d’opposizione clandestini o attentati dinamitardi.
Un numero crescente di persone è giustiziato per reati relativamente modesti.Nel 1994 due contadini sono stati messi a morte nella provincia di Henan per aver rubato 36 mucche e macchinari agricoli del valore di 9.300 dollari.Una legge del 1983 permette processi sommari in casi che prevedano la pena di morte.Tali processi sono particolarmente frequenti durante campagne di “pulizia”.Ad esempio, durante manifestazioni pubbliche nella provincia di Guangxi nel giugno 1995,34 persone sono state condannate per spaccio di droga ed immediatamente giustiziate.
Gli imputati possono essere processati senza un avvocato e senza conoscere l’accusa fino al momento di entrare in tribunale. I verdetti sono spesso decisi prima del processo per via di pressioni politiche.Alcune persone sono condannate solo in base alle loro confessioni, a volte estorte sotto tortura.Le esecuzioni possono avvenire entro pochi giorni dalla sentenza.Gli appelli sono formalità e raramente hanno successo. I prigionieri condannati a morte sono incatenati dal momento della sentenza fino all’esecuzione e spesso sono esposti al pubblico prima della condanna.
I prigionieri condannati sono incatenati per tutta la loro permanenza nel carcere, non possono contattare avvocati, e la loro posta è censurata. Solo poche ore prima dell’esecuzione è detto loro del fallimento dell’appello.
In questo modo, è poco probabile che possano acconsentire liberamente al prelievo organi, ammesso che essi ne siano informati. Le strette relazioni tra tribunali ed ospedali, oltre alla segretezza che circonda il processo e all aumentato introito generato dai trapianti per gli ospedali, fanno sorgere il fondato sospetto che in alcuni casi la tempestività delle esecuzioni possa essere collegata al bisogno di organi per i trapianti.
1. Il condannato si inginocchia. Ha le mani ed i piedi legati, la testa china.Un soldato gli ordina di stare fermo.Uno sparo e l’uomo si raggomitola al suolo.Un momento dopo, un altro sparo ed un altro corpo raggomitolato.Ancora ed ancora fino a che dozzine di vite sono state stroncate a sangue freddo.
La scena è quella di un’esecuzione di massa.Sono frequenti in Cina, dove migliaia di persone sono condannate a morte ogni anno. Alcune esecuzioni sono pubbliche.
2. Il luogo dell’esecuzione: i soldati fanno inginocchiare i due condannati e circondano la zona per evitare possibili disordini.
3. Un istante prima dell’esecuzione due soldati puntano il fucile all’altezza del cuore delle vittime, un terzo controlla la situazione.
4. Le due vittime controllano a terra dopo la fucilazione.
La scena è quella di un’esecuzione di massa.Sono frequenti in Cina, dove migliaia di persone sono condannate a morte ogni anno. Alcune esecuzioni sono pubbliche.
2. Il luogo dell’esecuzione: i soldati fanno inginocchiare i due condannati e circondano la zona per evitare possibili disordini.
3. Un istante prima dell’esecuzione due soldati puntano il fucile all’altezza del cuore delle vittime, un terzo controlla la situazione.
4. Le due vittime controllano a terra dopo la fucilazione.
Fonte: http://www.israt.it
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Cina: Sparano alla schiena per colpire al cuore!
Con migliaia di esecuzioni l'anno la Cina detiene il triste primato mondiale nella classifica dei Paesi in cui vige la pena di morte. E la sentenza capitale viene messa in atto con spietata ed elaborata precisione. Come racconta lo scrittore cinese Dai Sijie!Sulla pena di morte in Cina (oltre cinquemila condanne l’anno), si è letto e visto parecchio, a cominciare da certi sconcertanti reportage fotografici.
Dai Sijie, che con Balzac e la piccola sarta cinese (Adelphi) ci aveva introdotti agli orrori perpetrati dalle guardie rosse ai tempi della rivoluzione culturale, torna ora alla carica con Muo e la vergine cinese (Adelphi), un romanzo che mette a nudo alcuni aspetti controversi dell’inquietante potenza asiatica, dall’industrializzazione forzata alla corruzione dilagante, dal suo disumano capitalismo mascherato da socialismo alle arcaiche tradizioni.
Il protagonista della storia è Muo, un cinese laureato in psicoanalisi, imbevuto di teorie freudiane e lacaniane, reduce da un lungo soggiorno di studi a Parigi, una sorta di macchietta, una versione ancora più imbranata e pasticciona dei personaggi nevrotici dei film di Woody Allen. Una specie di cartone animato che sbatte il muso contro gli orrori del sistema ma riparte sempre da capo per ottusa testardaggine e surreale generosità.
Il suo progetto lo porterà ad affrontare il temibile giudice Di, un fucilatore da plotone di esecuzione diventato magistrato per meriti acquisiti sul campo. La descrizione che ne fa Dai Sijie è più spietata di un colpo alla nuca. Le sue parole più eloquenti di quelle di un appello per l’abolizione della pena di morte. Appelli che pure bisogna scrivere e firmare.
«Il nome per esteso del giudice è Di Jiangui, in cui Di è il cognome e Jiangui il nome proprio, molto diffuso tra i cinesi nati contemporaneamente alla Repubblica Popolare, nel 1949, e che significa “Costruzione della Patria”, in riferimento a un solenne discorso pronunciato da Mao in piazza Tian’an Men con la sua voce da controtenore, leggermente tremula. All’inizio degli anni Settanta, Di Jiangui, che veniva da una famiglia di operai, si era arruolato nella polizia, pilastro della dittatura del proletariato, dove era rimasto per una quindicina d’anni, diventando tiratore scelto nei plotoni di esecuzione e buon comunista. Nel 1985, in piena riforma economica, era stato nominato giudice presso il tribunale di Chengdu, una città di otto milioni di abitanti. Un bel colpo di fortuna, quel posto così ambito e prestigioso! Poiché la maggior parte degli affari cinesi, soprattutto quelli giudiziari, si decide a suon di mazzette, il neoletto giudice aveva fissato senza indugi la sua tariffa: mille dollari per un delitto comune, una cifra astronomica per l’epoca. Poi, a mano a mano che il costo della vita cresceva, il prezzo di Di era andato moltiplicandosi, fino a raggiungere i diecimila dollari quando Vulcano della vecchia Luna si era fatta arrestare, cadendo nelle sue grinfie. Un affare politico».
Chi è Vulcano della Vecchia Luna? Per quali ragioni si è fatta arrestare? Perché Muo ne combina di tutti i colori per farla liberare? Lasciamo inevasi questi interrogativi per invogliare il lettore, mentre torniamo al «nostro» giudice e ai suoi singolari passatempi.
«Questi, dopo il debutto in magistratura, aveva preso l’abitudine di “rigenerarsi” –come diceva lui– andando a correre ogni domenica mattina su un terreno incolto, lo stesso in cui da tempo immemorabile il plotone di esecuzione usa fucilare i condannati a morte, soli o in gruppi».
È qui che si reca Muo con l’intenzione di incontrare il giudice per corromperlo. Ma s’imbatte in due tristi figuri che stanno scavando delle fosse.
Dai Sijie, che con Balzac e la piccola sarta cinese (Adelphi) ci aveva introdotti agli orrori perpetrati dalle guardie rosse ai tempi della rivoluzione culturale, torna ora alla carica con Muo e la vergine cinese (Adelphi), un romanzo che mette a nudo alcuni aspetti controversi dell’inquietante potenza asiatica, dall’industrializzazione forzata alla corruzione dilagante, dal suo disumano capitalismo mascherato da socialismo alle arcaiche tradizioni.
Il protagonista della storia è Muo, un cinese laureato in psicoanalisi, imbevuto di teorie freudiane e lacaniane, reduce da un lungo soggiorno di studi a Parigi, una sorta di macchietta, una versione ancora più imbranata e pasticciona dei personaggi nevrotici dei film di Woody Allen. Una specie di cartone animato che sbatte il muso contro gli orrori del sistema ma riparte sempre da capo per ottusa testardaggine e surreale generosità.
Il suo progetto lo porterà ad affrontare il temibile giudice Di, un fucilatore da plotone di esecuzione diventato magistrato per meriti acquisiti sul campo. La descrizione che ne fa Dai Sijie è più spietata di un colpo alla nuca. Le sue parole più eloquenti di quelle di un appello per l’abolizione della pena di morte. Appelli che pure bisogna scrivere e firmare.
«Il nome per esteso del giudice è Di Jiangui, in cui Di è il cognome e Jiangui il nome proprio, molto diffuso tra i cinesi nati contemporaneamente alla Repubblica Popolare, nel 1949, e che significa “Costruzione della Patria”, in riferimento a un solenne discorso pronunciato da Mao in piazza Tian’an Men con la sua voce da controtenore, leggermente tremula. All’inizio degli anni Settanta, Di Jiangui, che veniva da una famiglia di operai, si era arruolato nella polizia, pilastro della dittatura del proletariato, dove era rimasto per una quindicina d’anni, diventando tiratore scelto nei plotoni di esecuzione e buon comunista. Nel 1985, in piena riforma economica, era stato nominato giudice presso il tribunale di Chengdu, una città di otto milioni di abitanti. Un bel colpo di fortuna, quel posto così ambito e prestigioso! Poiché la maggior parte degli affari cinesi, soprattutto quelli giudiziari, si decide a suon di mazzette, il neoletto giudice aveva fissato senza indugi la sua tariffa: mille dollari per un delitto comune, una cifra astronomica per l’epoca. Poi, a mano a mano che il costo della vita cresceva, il prezzo di Di era andato moltiplicandosi, fino a raggiungere i diecimila dollari quando Vulcano della vecchia Luna si era fatta arrestare, cadendo nelle sue grinfie. Un affare politico».
Chi è Vulcano della Vecchia Luna? Per quali ragioni si è fatta arrestare? Perché Muo ne combina di tutti i colori per farla liberare? Lasciamo inevasi questi interrogativi per invogliare il lettore, mentre torniamo al «nostro» giudice e ai suoi singolari passatempi.
«Questi, dopo il debutto in magistratura, aveva preso l’abitudine di “rigenerarsi” –come diceva lui– andando a correre ogni domenica mattina su un terreno incolto, lo stesso in cui da tempo immemorabile il plotone di esecuzione usa fucilare i condannati a morte, soli o in gruppi».
È qui che si reca Muo con l’intenzione di incontrare il giudice per corromperlo. Ma s’imbatte in due tristi figuri che stanno scavando delle fosse.
Muo chiese ragguagli sulla funzione delle buche che stavano scavando.
«”Senza queste”, spiegò il giustiziere del verme “il tizio prima di esalare l’ultimo respiro, rotola dove capita, e il sangue va dappertutto”.
“Il criminale”, aggiunse l’altro, che aveva un’aria più intelligente, “viene giustiziato in ginocchio, con un colpo dritto al cuore. Di solito cade stecchito nella buca. E se durante l’agonia si dibatte, la terra gli si ammassa attorno immobilizzandolo. Allora vengono i medici a espiantare gli organi”».
La visita della collina delle esecuzioni fa venire a Muo i sudori freddi.
«Gli si affacciò alla memoria il volto di un amico d’infanzia dimenticato da tempo. Ebbe un fremito di orrore. Era Chen, detto “Capelli bianchi”, l’unico tra i suoi amici ad aver conosciuto, agli inizi degli anni Ottanta, la ricchezza e il successo: era diventato genero del sindaco e proprietario di una società quotata in borsa, finché, tre anni prima, non l’avevano condannato a morte per contrabbando di automobili straniere. Era stato giustiziato ai piedi della collina? Magari in ginocchio, la schiena offerta alla canna di un fucile anonimo, ai colpi di un’arma senza pietà che fa fuoco da pochi metri di distanza? Aveva sentito dire che la posizione delle dita di un condannato è fondamentale, e che i soldati hanno cura di legargli le braccia sul dorso in modo tale che le pallottole dei tiratori possano colpire con precisione il piccolo spazio tra il dito indice e il medio, dietro il quale si trova il cuore».
Finalmente Muo incontra il giudice Di, nel suo studio. Nell’attesa che arrivi, si guarda attorno.
«”Senza queste”, spiegò il giustiziere del verme “il tizio prima di esalare l’ultimo respiro, rotola dove capita, e il sangue va dappertutto”.
“Il criminale”, aggiunse l’altro, che aveva un’aria più intelligente, “viene giustiziato in ginocchio, con un colpo dritto al cuore. Di solito cade stecchito nella buca. E se durante l’agonia si dibatte, la terra gli si ammassa attorno immobilizzandolo. Allora vengono i medici a espiantare gli organi”».
La visita della collina delle esecuzioni fa venire a Muo i sudori freddi.
«Gli si affacciò alla memoria il volto di un amico d’infanzia dimenticato da tempo. Ebbe un fremito di orrore. Era Chen, detto “Capelli bianchi”, l’unico tra i suoi amici ad aver conosciuto, agli inizi degli anni Ottanta, la ricchezza e il successo: era diventato genero del sindaco e proprietario di una società quotata in borsa, finché, tre anni prima, non l’avevano condannato a morte per contrabbando di automobili straniere. Era stato giustiziato ai piedi della collina? Magari in ginocchio, la schiena offerta alla canna di un fucile anonimo, ai colpi di un’arma senza pietà che fa fuoco da pochi metri di distanza? Aveva sentito dire che la posizione delle dita di un condannato è fondamentale, e che i soldati hanno cura di legargli le braccia sul dorso in modo tale che le pallottole dei tiratori possano colpire con precisione il piccolo spazio tra il dito indice e il medio, dietro il quale si trova il cuore».
Finalmente Muo incontra il giudice Di, nel suo studio. Nell’attesa che arrivi, si guarda attorno.
«Accanto, sopra un televisore, c’era uno strano oggetto –l’unico in tutto l’ufficio a potersi definire artistico– che un raggio di sole filtrato dalle veneziane cospargeva di pagliuzze scintillanti: a prima vista sembravano monete di rame, in realtà era un modellino di aereo da combattimento interamente costruito con bossoli di fucile. Centinaia di bossoli, su ciascuno dei quali erano incisi un nome e una data».
Passerà un po’ di tempo e succederanno cose strane e incresciose prima che Muo si renda conto appieno della matrice di quell’insolito soprammobile.
«Muo posò lo sguardo sul modellino dell’aereo da combattimento, su cui non danzava più alcuna pagliuzza scintillante. Il rame dei bossoli si era scurito.
«Per puro caso gli saltò all’occhio un dettaglio: parecchi di quei bossoli portavano la stessa data. La verità gli si rivelò di punto in bianco: ogni nome corrispondeva a un prigionieri fucilato da lui, dall’ex tiratore scelto, e la data era quella dell’esecuzione. A volte ne aveva giustiziati più di uno nello stesso giorno. Ciascun bossolo era la testimonianza di una pallottola assassina, uscita da un fucile che aveva centrato il piccolo spazio compreso tra l'’ndice e il medio del condannato, dietro cui si trovava il cuore».
Il resto del libro lo lasciamo al piacere della vostra lettura. Perché Dai Sijie affronta problemi come la corruzione e la pena di morte senza lasciarsi sopraffare e scrivendo pagine addirittura esilaranti.
Se la vicenda in parte descritta non vi convince perché puzza di finzione ed esagerazione, in altre parole è romanzesca, prendete almeno per buona la storia vera racconta dal giornale cinese Caijing nel numero del 13 dicembre 2004. Parla di un omicida reo confesso che è quasi riuscito a evitare il carcere per sedici anni grazie all’influenza politica della sua famiglia, un po’ come Chen, il genero del sindaco nel libro di Dai Sijie.
Teatro della vicenda è la provincia di Heilongjiang, nel nordest della Cina, dove, il 26 maggio del 1988, Han Jianxum ha ucciso sua moglie Yang Yongxia e il figlio di un anno. Dopo l’arresto e la confessione, l’assassino è stato trasferito in una prigione dove, di fatto, ha potuto condurre una vita libera con la possibilità di rientrare a casa. Nel 1994 è stato scarcerato e si è trasferito in un’altra provincia. Nel frattempo gli inquirenti non hanno mai istruito il processo. La lentezza del tribunale era dovuta alle tangenti pagate dalla madre dell’omicida e alle pressioni esercitate da un potente uomo politico locale il cui figlio ha sposato la sorella minore di Han Jianxum. In tutti questi anni la famiglia della vittima si è battuta invano per la celebrazione del processo. La svolta è arrivata nel febbraio 2004, quando il boss politico che proteggeva l’assassino è stato arrestato per corruzione. Han Jianxum è stato di nuovo arrestato e il processo è iniziato.
Cina è il paese con il maggior numero di condannati a morte, anche se mancano statistiche ufficiali in materia. Tra i 65 reati figurano l'omicidio, il traffico di droga, reati economici, politici, d'opinione, la pirateria informatica e l’uccisione di animali protetti.
Vengono spesso organizzate manifestazioni di massa per la lettura della sentenza di morte, e l'esecuzione viene compiuta subito dopo: i condannati vengono mostrati al pubblico con la testa reclinata, le mani legate dietro la schiena e un cartello con il nome e l'indicazione dei crimini commessi legato al collo. Molti trascorrono il periodo che va dalla condanna all'esecuzione ammanettati e coi ferri alle caviglie. Gli organi del condannato vengono quasi sempre espiantati, ma senza chiedere il consenso alla famiglia.
Passerà un po’ di tempo e succederanno cose strane e incresciose prima che Muo si renda conto appieno della matrice di quell’insolito soprammobile.
«Muo posò lo sguardo sul modellino dell’aereo da combattimento, su cui non danzava più alcuna pagliuzza scintillante. Il rame dei bossoli si era scurito.
«Per puro caso gli saltò all’occhio un dettaglio: parecchi di quei bossoli portavano la stessa data. La verità gli si rivelò di punto in bianco: ogni nome corrispondeva a un prigionieri fucilato da lui, dall’ex tiratore scelto, e la data era quella dell’esecuzione. A volte ne aveva giustiziati più di uno nello stesso giorno. Ciascun bossolo era la testimonianza di una pallottola assassina, uscita da un fucile che aveva centrato il piccolo spazio compreso tra l'’ndice e il medio del condannato, dietro cui si trovava il cuore».
Il resto del libro lo lasciamo al piacere della vostra lettura. Perché Dai Sijie affronta problemi come la corruzione e la pena di morte senza lasciarsi sopraffare e scrivendo pagine addirittura esilaranti.
Se la vicenda in parte descritta non vi convince perché puzza di finzione ed esagerazione, in altre parole è romanzesca, prendete almeno per buona la storia vera racconta dal giornale cinese Caijing nel numero del 13 dicembre 2004. Parla di un omicida reo confesso che è quasi riuscito a evitare il carcere per sedici anni grazie all’influenza politica della sua famiglia, un po’ come Chen, il genero del sindaco nel libro di Dai Sijie.
Teatro della vicenda è la provincia di Heilongjiang, nel nordest della Cina, dove, il 26 maggio del 1988, Han Jianxum ha ucciso sua moglie Yang Yongxia e il figlio di un anno. Dopo l’arresto e la confessione, l’assassino è stato trasferito in una prigione dove, di fatto, ha potuto condurre una vita libera con la possibilità di rientrare a casa. Nel 1994 è stato scarcerato e si è trasferito in un’altra provincia. Nel frattempo gli inquirenti non hanno mai istruito il processo. La lentezza del tribunale era dovuta alle tangenti pagate dalla madre dell’omicida e alle pressioni esercitate da un potente uomo politico locale il cui figlio ha sposato la sorella minore di Han Jianxum. In tutti questi anni la famiglia della vittima si è battuta invano per la celebrazione del processo. La svolta è arrivata nel febbraio 2004, quando il boss politico che proteggeva l’assassino è stato arrestato per corruzione. Han Jianxum è stato di nuovo arrestato e il processo è iniziato.
Cina è il paese con il maggior numero di condannati a morte, anche se mancano statistiche ufficiali in materia. Tra i 65 reati figurano l'omicidio, il traffico di droga, reati economici, politici, d'opinione, la pirateria informatica e l’uccisione di animali protetti.
Vengono spesso organizzate manifestazioni di massa per la lettura della sentenza di morte, e l'esecuzione viene compiuta subito dopo: i condannati vengono mostrati al pubblico con la testa reclinata, le mani legate dietro la schiena e un cartello con il nome e l'indicazione dei crimini commessi legato al collo. Molti trascorrono il periodo che va dalla condanna all'esecuzione ammanettati e coi ferri alle caviglie. Gli organi del condannato vengono quasi sempre espiantati, ma senza chiedere il consenso alla famiglia.
Ecco alcuni reati che possono costare la condanna a morte:
Allevamento illegale di bestiame
Omicidio
Tentato omicidio
Omicidio colposo
Uccisione di una tigre
Rapina e rapina a mano armata
Stupro
Ferimento
Furto e furto ripetuto
Rapimento
Traffico di donne o bambini
Organizzazione della prostituzione
Organizzazione di spettacoli pornografici
Pubblicazione di materiale pornografico
Atti di teppismo
Disturbo dell’ordine pubblico
Distruzione o danneggiamento della proprietà pubblica o privata
Sabotaggio controrivoluzionario
Incendio
Traffico e spaccio di droga
Corruzione
Truffa
Concussione
Frode
Usura
Contraffazione
Rivendita di ricevute Iva
Evasione fiscale
Furto o fabbricazione illegale di armi
Possesso o vendita illegali di armi e munizioni
Furto o contrabbando di tesori nazionali e reliquie culturali
Spaccio di denaro falso
Ricatto.
Fonte: http://www.navecorsara.it
Allevamento illegale di bestiame
Omicidio
Tentato omicidio
Omicidio colposo
Uccisione di una tigre
Rapina e rapina a mano armata
Stupro
Ferimento
Furto e furto ripetuto
Rapimento
Traffico di donne o bambini
Organizzazione della prostituzione
Organizzazione di spettacoli pornografici
Pubblicazione di materiale pornografico
Atti di teppismo
Disturbo dell’ordine pubblico
Distruzione o danneggiamento della proprietà pubblica o privata
Sabotaggio controrivoluzionario
Incendio
Traffico e spaccio di droga
Corruzione
Truffa
Concussione
Frode
Usura
Contraffazione
Rivendita di ricevute Iva
Evasione fiscale
Furto o fabbricazione illegale di armi
Possesso o vendita illegali di armi e munizioni
Furto o contrabbando di tesori nazionali e reliquie culturali
Spaccio di denaro falso
Ricatto.
Fonte: http://www.navecorsara.it
sabato 2 agosto 2008
Le Olimpiadi di Pechino cominceranno con una grande esplosione!
PECHINO (Reuters) - La cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Pechino aprirà l'evento -- considerato il più grande spettacolo della Terra -- in modo esplosivo.Nella nazione che ha inventato la polvere da sparo, i fuochi d'artificio giocheranno un ruolo principale nello spettacolo, che durerà tre ore e mezzo, con il quale la Cina spera di stemperare le polemiche che hanno oscurato l'avvio dei Giochi.
Il nuovo stadio nazionale di Pechino, chiamato "Nido d'uccello" per la sua forma, ospiterà circa 10.000 figuranti, davanti a un pubblico televisivo di più di quattro miliardi di persone.
L'evento sarà anche uno dei più costosi della storia olimpica: secondo i media circa 100 milioni di dollari sono stati stanziati per le cerimonie di apertura e chiusura dei Giochi estivi -- più del doppio dei Giochi di Atene nel 2004.
Una ghiotta anticipazione della cerimonia è stata diffusa da una tv sudcoreana, che è riuscita a intrufolarsi dietro le transenne per filmare in segreto le prove la scorsa settimana.
Il filmato, che ha girato su Internet, mostra acrobati volare sulla pista, formazioni di kung-fu e immagini di balene.
"La cerimonia sarà spettacolare e magnifica", ha detto il francese Yves Pepin, esperto di eventi multimediali che ha collaborato all'organizzazione dello spettacolo.
"Sarà un modo per la Cina di mostrare al mondo ciò di cui è capace", ha aggiunto l'esperto a Reuters. "Penso che sarà il più grande spettacolo di questo genere mai visto".
Zhang Yimou, regista di film come "Lanterne rosse " e "La foresta dei pugnali volanti", ha lavorato per tre anni alla produzione, cercando di condensare 5000 anni di storia cinese in un segmento di 50 minuti che farà parte dello show. Lo spettacolo partirà otto minuti dopo le otto di sera, l'8 agosto del 2008. L'8 è un numero fortunato per la Cina, che dalla povertà e dall'isolamento è diventata la quarta economia del mondo.
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ITALIA-CINA
PER L'ALLEANZA, LA COOPERAZIONE, L'AMICIZIA E LA COLLABORAZIONE TRA' LA REPUBBLICA ITALIANA E LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE!!!