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venerdì 1 marzo 2013

Sulla casa di Montecarlo Gianfranco Fini rischia il crac: potrebbe pagare 500mila euro di danni al processo civile, e noi tutti sinceramente ce lo auguriamo di cuore, dopo l'ultima immensa "gioia" che le elezioni politiche 2013 ci hanno riservato, il traditore Fini fuori dal Parlamento insieme al suo fido Italo Bocchino, due personaggi che hanno contribuito a demolire un'intera area politica solo per il proprio tornaconto privato e per il proprio egoismo ed egocentrismo!

GIANFRANCO FINI
MONTECARLO - (ITALIA) - Togliete pure i fuori-onda di Gianfranco Fini coi magistrati amici o gli imbarazzi giudiziari dovuti al suo ristrettissimo entourage in Vallettopoli, le escort alla Camera, la cricca di Anemone o il re dei videpoker Corallo. No. L'ex delfino di Almirante annegato nell'acquario dei pesci-pilota Bocchino, Granata e Briguglio, protagonista di una presidenza a Montecitorio a dir poco anti Cav prima e dopo il «che fai mi cacci?», verrà ricordato per l'incresciosa vicenda della casa di Montecarlo.
Il suo vecchio popolo, eppoi quel poco di «nuovo» che l'ha scaricato dopo averlo inizialmente seguito in Fli, non gliel'ha perdonata la storia dell'immobile monegasco della fascistissima contessa Colleoni donato ad An e attraverso società off-shore casualmente finito al cognato Giancarlo Tulliani. Non è passato sopra alle bugie e alla promessa (non mantenuta) di dimettersi di fronte all'«evidenza» sul proprietario dell'appartamento che persino un imbarazzato Michele Santoro non potè fare a meno di rimarcare. E anche se la magistratura romana ha provato in tutti i modi a «tutelare» la terza carica dello Stato non interrogando mai né lui né il cognato in Ferrari, indagando Fini solo il giorno della richiesta d'archiviazione, infischiandosene delle bugie al pm dell'onorevole-tesoriere Pontone oltre che delle perizie che accertavano la «non congruità» del prezzo di vendita col valore effettivo del quartierino, il marchio indelebile «Tulliani-Montecarlo» il Nostro se lo porterà appresso in eterno. Hai voglia a fargli capire che non tutto si risolve sul piano penale, come Gianfry va dicendo forte dell'archiviazione.
GIANFRANCO FINI (A SINISTRA) CON ALMIRANTE
E infatti la maledizione del Principato di Monaco lo seguirà anche fuori dalla Camera e dall'ufficio del gip che l'ha «salvato» girando la pratica ai giudici del tribunale civile. È infatti iniziata la causa intentata dall'avvocato Marco Di Andrea per conto della Destra di Storace, a nome dell'unico erede della contessa Colleoni, e cioè quel Paolo Fabri che rivuole indietro l'appartamento e il patrimonio di famiglia ancora invenduto. Fini e il fidatissimo finiano Donato Lamorte sono stati citati in giudizio per il mancato adempimento del cosiddetto «onere testamentario». Ovvero all'attuazione dei desiderata della nobildonna, certificato dal notaio, che vincolavano l'utilizzo della casa di Montecarlo alla «buona battaglia» del partito guidato da Gianfranco Fini. Onere che a detta dei ricorrenti, il cognato di Giancarlo Tulliani non avrebbe rispettato andando a strizzare l'occhio finanche al centrosinistra. Il processo civile, combattuto in punta di diritto, servirà a chiarire se Fini ha tradito i «vincoli» politici imposti nella donazione dalla discendente del condottiero Colleoni.
Se al cittadino comune Gianfranco Fini i giudici civili dovessero dare torto, il danno - dopo la beffa del prepensionamento da parlamentare - sarebbe enorme: mezzo milione di euro in risarcimento danni. Una cifra ricavata dalla differenza tra il valore dell'epoca della casa monegasca (819mila euro) e il corrispettivo (300mila euro) incassato dal suo vecchio partito direttamente dalla off-shore di Saint Lucia. In subordine, in caso di accoglimento, la richiesta mira a devolvere tutto o in parte il gigantesco «tesoro immobiliare» della Colleoni a una Fondazione che continui a perseguire «gli obiettivi del disciolto partito di Alleanza nazionale» o, nell'impossibilità, di devolverlo «alla Destra di Storace». Nelle carte «processuali» sono finite decine, centinaia, di dichiarazioni e prese d'atto di Fini che «evidenzierebbero un comportamento politico contraddittorio, incoerente e antitetico» con il pensiero identitario missino prima, e di An poi. L'ultimo tradimento: la svendita del gioiello di «famiglia» finito nella disponibilità di un'altra famiglia. La famiglia Tulliani.
                                                                                                                                                                 Fonte: http://www.ilgiornale.it

SCIOGLIERE ALLEANZA NAZIONALE: A COSA E A CHI E' SERVITO?

I risultati delle ultime votazioni alla Camera delle Politiche 2008
I risultati delle ultime votazioni al Senato delle Politiche 2008
SILVIO BERLUSCONI E GIANFRANCO FINI

Roma - (Italia) - (Martedì 10 Agosto 2010) - Dopo 14 anni esatti dalla sua nascita, (o per meglio dire dopo il suo restyling che ha trasformato il vecchio e recalcitrante Movimento Sociale Italiano del 4,5-5,5% di voti ad un più' moderno e dinamico Partito di Destra che si attestava al 12% dei voti sfiorando il 15% in alcune tornate elettorali), Alleanza Nazionale nel 2009 è stata sciolta per fondare il Popolo delle Libertà e insieme alla disciolta Forza Italia, movimento che faceva capo al Premier Berlusconi oggi Leader indiscusso del nuovo grande soggetto politico del Centro-Destra. Oggi sappiamo che la maggior parte degli iscritti al Partito di AN in un primo momento erano contrari allo scioglimento del movimento tanto è vero che la stessa dirigenza Nazionale insieme alle dirigenze locali non indettero mai assemblee consultative e non indettero mai Congressi Politici per votare o approvare tale e seria decisione ma ci furono solo "finte" riunioni tra i vari Rappresentanti Istituzionali del Partito e tra i vari Circoli Territoriali di AN, riunioni e meeting fittizie "coordinate e manovrate" dalle varie Correnti vicine al Presidente Nazionale "padre e padrone" Gianfranco Fini per appoggiare la scellerata decisione di "sopprimere" un'area politica con una sua precisa identità culturale, sociale e ideologica per confluire tutti insieme "appassionatamente" dentro il grande calderone del Popolo delle Libertà. Tutte le maggiori correnti di AN dovevano "obbedire" (ed hanno obbedito) al grande Capo-Traghettatore Gianfranco Fini e tutti coloro che non avrebbero (e di fatto non hanno) appoggiato la "grande svolta" di Fini sarebbero (e sono stati) "cacciati" tutti fuori dal Partito che si stava sciogliendo e non sarebbero mai stati ammessi a partecipare alla grande avventura del PDL e così infatti è stato fatto: uno tra tutti che si opponeva alle scelte imposte dall'esecutivo di AN che era fedele in gran parte a Fini fu Francesco Storace che difatti è stato poi escluso ed estromesso dalla cerchia degli ex-AN-MSI saliti al potere insieme al Cavaliere Berlusconi. In pratica, quello che oggi Fini rimprovera a Berlusconi è uguale a tutto quello che una volta in AN diversi esponenti politici rimproveravano allo stesso Fini; stesse accuse e stesso problema. In Alleanza Nazionale Fini influenzava pesantemente l'esecutivo politico del Partito e la sua Assemblea Nazionale imponendo diktat e con l'aiuto delle varie e diverse Correnti Politiche da lui stesso "fondate" con l'approvazione di uno Statuto che di fatto divideva e spezzettava il Partito in miriadi di Circoli Territoriali e Ambientali male coordinati tra loro dai vari dirigenti locali che non facevano altro se non di eseguire alla meglio gli ordini impartiti dai propri "Capi-Corrente" che facevano a gara tra loro per ingraziarsi i favori e le simpatie del Grande Capo Gianfranco Fini solo per aumentare il proprio potere o il proprio prestigio all'interno del Partito ed esclusivamente per cercare di occupare più spazi politici possibili e più cariche Politiche e Istituzionali possibili favorendo in questo modo l'esaltazione e l'egoismo Politico dei pochi singoli a discapito della grande e storica militanza, tutto a discapito della sana Politica partecipativa e attiva messa da parte e schiacciata violentemente da una politica passiva e disgregatrice di valori e di idee ma così voleva Fini con il vecchio e ormai collaudato detto: "DIVIDI ET IMPERA" che grazie allo Statuto che lui stesso aveva voluto quando il vecchio MSI fu sciolto a Fiuggi nel 1995 insieme alla soppressione del vecchio Statuto, aveva da subito messo in pratica prendendo le redini della guida di Alleanza Nazionale. Nessuno doveva "fiatare" e tutti dovevano "tacere" anche quando il Partito falliva e da subito chiare erano le scelte sbagliate, una per tutte l'idea dell'alleanza politica con la lista di Segni e l'introduzione dell'Elefantino nel simbolo elettorale; come non ricordare l'obbrobrio della coccinella sempre introdotta nel simbolo elettorale e da subito rimossa così come era stato rimosso l'Elefantino? Idee scellerate che avevano fatto male al Partito ma il Capo non ha mai pagato per le sue scelte, MAI! E MAI il Grande Capo Gianfranco Fini ha chiesto scusa ai suoi iscritti e membri del Partito in primis e ai propri elettori soprattutto! Per tutte le sue scelte sbagliate ed imposte al Partito solo i suoi più stretti collaboratori venivano "silurati" rei di aver lavorato male e male interpretato i progetti del Grande Capo Gianfranco Fini, perché LUI aveva sempre e comunque ragione! Tanti e troppi "capri espiatori" hanno pagato al posto suo, nei suoi 14 anni di guida dell'area politica di Destra; perché Fini l'ha sempre spuntata anche di fronte ai peggiori e gravi fallimenti della sua guida? Lui ha sempre e sordidamente "ricattato" i suoi "colonnelli" facendogli tacitamente palesare l'idea della perdita del potere e del prestigio se questi si sarebbero ribellati contro le sue decisioni, decisioni che erano SOLO SUE e che servivano in realtà SOLO alla sua ASCESA Politica! Perché Fini in realtà trattava AN non come un Partito Politico Pluralista formato da una comunità militante e da un'area con una identità ideologica e sociale molto forte e molto ben delineata, una comunità che partecipava attivamente con entusiasmo alla politica attiva in tutte le sue forme ed in tutte le tornate e le sfide elettorali su tutto il territorio Nazionale dalle Alpi alla Sicilia, dalla Sardegna a tutte le più grandi e piccole isole dello stivale, ma bensì Fini trattava il Partito come la SUA COSA personale! Alleanza Nazionale serviva a Fini solo per i suoi scopi personali e solo per la sua carriera politica, così allo stesso modo di AN se ne sono serviti i suoi "colonnelli" e tutti quei capetti che guidavano le faide e le Correnti interne al Partito. Fini riteneva Alleanza Nazionale la sua "creatura" in maniera così egoistica e possessiva che così come contribuì enormemente a farla nascere, allo stesso modo contribuì enormemente a farla morire. Anzi, si può tranquillamente dire alla luce dei fatti politici odierni che Alleanza Nazionale è stata praticamente uccisa dal suo stesso "padre-padrone"! Ora dunque rispondiamo alla domanda: a chi e a cosa è servito lo scioglimento di Alleanza Nazionale? Ovvio: come detto poc'anzi è servito solo ed esclusivamente a chi ha contribuito alla sua nascita prima e alla sua morte poi; in primis al suo ex-Presidente Gianfranco Fini "padre e padrone" che con il suo scioglimento è potuto sopravanzare di grado sopra la scaletta del carrierismo politico intrapreso dagli anni di Giorgio Almirante nel MSI-DN sino ad oggi e se appunto oggi Fini siede sulla poltrona della Presidenza della Camera dei Deputati è solo grazie alla schiacciante vittoria elettorale ottenuta dal PDL nel 2008 ed è sempre grazie alla nascita del PDL se oggi La Russa, Matteoli, Giorgia Meloni e tanti altri vari ex-AN siedono e lavorano all'interno dei Dicasteri del Governo Berlusconi; è grazie ancora al PDL di Berlusconi se Gianni Alemanno è oggi Sindaco della Capitale; ecco a chi è servita la morte di Alleanza Nazionale e dell'area politica che rappresentava: tutti i vantaggi solo a Fini ed ai suoi "soliti" fedeli Colonnelli e a nessun altro. Parte della militanza di AN ha seguito il Capo-Suicida con i suoi Colonnelli rappresentati dai vari Gasparri, Matteoli, La Russa, Alemanno ma la grande maggioranza dei militanti e dei membri del Partito ex-MSI ora ex-AN si è frammentata nei vari Partiti e Movimenti di area e di estrema Destra da Forza Nuova, Casa Pound, Fiamma Tricolore a La Destra di Storace, un altro ex illustre di AN cacciato via solo per averla pensata in maniera diversa dal suo Grande Capo Fini. Quello stesso Fini che oggi si lamenta con il Premier Berlusconi, reo di guidare il PDL in maniera troppo "autoritaria" e centralizzata con la grave colpa di soffocare e annullare il dibattito politico e democratico all'interno del PDL Co-fondato insieme ed oggi Co-smembrato ancora una volta, ancora per colpa di Fini. Quello stesso Fini che in AN non promuoveva e non appoggiava nessun tentativo di dibattito politico interno oggi "piange" e si lamenta, vuole il confronto delle idee e vuole il dibattito politico nel PDL, non gli basta la carriera fatta sino ad ora ma l'ex-Padre Padrone di AN sembra volere di più, anzi molto di più: come non leggere nei suoi occhi la voglia di sostituire il Premier in carica? La sua voglia di arrivare al comando, al vero potere della politica e della Nazione, la sua voglia di diventare Capo del Governo? Cos'è oggi dopo un anno dalla morte definitiva di AN a causa dei suoi stessi fondatori il Presidente della Camera Gianfranco Fini viene cacciato dal PDL e messo alla porta da un furente Berlusconi che non digeriva più i suoi capricci da "prima donna" e nella tragicommedia più comica che mai Fini con i pochi fedelissimi che sono stati disposti a seguirlo fonda un nuovo movimento chiamato "Futuro e Libertà per l'Italia" (FLI) costituendo gruppi autonomi in Parlamento (33 Deputati alla Camera e 10 Senatori al Senato) pochi numeri ma in grado di mettere a serio rischio la tenuta del Governo e la vita stessa della Legislatura. Come in AN Fini perdura con il suo inconfondibile stile del "DIVIDI ET IMPERA" appropriandosi indebitamente (come era nel suo stesso stile in AN) dell'appoggio del quotidiano politico del Secolo d'Italia (Giornale di Partito del vecchio MSI-DN e di AN poi...ma oggi perché deve essere vicino a Fini? Chi lo ha deciso? Quale ruolo riveste oggi il Secolo d'Italia e per quale motivo non è stato chiuso in quanto il Partito da cui era gestito era stato sciolto?) e con le sue Associazioni Culturali "Generazione Italia" e "Fare Futuro" contribuisce a disgregare ancora di più il panorama politico Italiano creando fratture nel tessuto sociale e politico nella Destra Nazionale, creando confusione e destabilizzazione sia all'interno delle Istituzioni sia all'esterno nella società civile. Dunque che senso ha oggi il suo nuovo ed ennesimo progetto politico? Ad un anno di distanza, sempre se è verità la sua voglia di confronto e dibattito politico all'interno del PDL (e noi ne dubitiamo fortemente) perché non ha mantenuto in vita Alleanza Nazionale all'interno della coalizione di Centro-Destra così come ha fatto e sta facendo la Lega Nord di Umberto Bossi? Che senso ha e che senso ha avuto sciogliere un Partito per poi costituirne uno nuovo appena un anno dopo? Con la morte di AN Fini ha decretato indirettamente nella realtà la sua morte Politica, perché oggi Fini ha svelato definitivamente la sua vera faccia che è quella di un uomo politico traditore ed opportunista, cinico calcolatore e carrierista, egoista e capriccioso quanto un "moccioso" che sempre vuole essere al centro delle attenzioni di tutto ciò che lo circonda. Fini ha tradito un'area di Destra identitaria e militante, culturalmente e socialmente attiva che oggi sopravvive a se stessa smembrata nei diversi movimenti di Destra ed Estrema Destra; Fini ha tradito gli stessi elettori ex-AN che lo hanno seguito nel PDL e gli hanno creduto, ignari di quello che sarebbe capitato da lì a un anno dopo; Fini ha tradito i valori che stanno di più a cuore all'elettore medio di Destra contraddicendosi più di una volta e facendo il contrario di quello che gli elettori di Destra si aspettavano tradendo il suo stesso programma elettorale sottoscritto alla fondazione del PDL; Fini ha tradito la Contessa Anna Maria Colleoni che a Montecarlo aveva lasciato in eredità al Partito di Destra che lei stessa "amava" e in cui lei stessa credeva un proprio appartamento, un'eredità lasciatagli proprio perché lei appunto credeva in quella Destra che Fini ha smembrato e cancellato quasi dal panorama Politico Italiano, anche lei dunque tradita da Fini e l'attuale scandalo che grazie a quell'appartamento è venuto a galla lo dimostra pienamente: anche amministrando quell'appartamento Fini e i suoi amici fedeli lo hanno "usato" come se fosse stata roba solo SUA e come con Alleanza Nazionale ne hanno fatto un "uso" privato, opportunistico e personalistico. A monte di tutto quello che è successo sino ad oggi, analizzando profondamente la vita politica di questo personaggio ex-pupillo di Giorgio Almirante negli anni '80 si può ben dire che di Fini ora più che mai bisogna assolutamente diffidare, si deve mettere in guardia la società civile e avvertire, informare per quanto sia possibile tutto l'elettorato di Centro-Destra di buona volontà e dissuadere gli elettori a non farsi tentare dal canto della sirena di "Futuro e Libertà per l'Italia" convincendo il cittadino sia moderato sia quello vicino alla Destra a non votare più per un uomo politico che "usa" le persone e le "cose" solo per i propri scopi, interessi e obbiettivi personali senza ritegno e senza rispetto alcuno per chicchessia.

Alexander Mitrokhin
 

sabato 26 gennaio 2013

Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini, Mario Monti: lo strano "trio" della politica Italiana, un'ex Demo-Cristiano, un'ex-Missino, un'ex-Professore in quota Goldman Sachs in odore acre di ambienti Massonici legati all'alta Finanza! Tre uomini in netta contraddizione tra loro e tra loro stessi, che si venderebbero l'anima al diavolo pur di salvare la loro posizione e la loro poltrona, tre uomini ex-traditori di ex-alleati e di loro stessi, tre uomini bugiardi fin dentro il loro midollo osseo, tre uomini assolutamente da evitare e da NON VOTARE, per il bene dell'Italia e di tutto il popolo onesto e lavoratore! Non date spazio in Parlamento e in Senato agli ex-avversari che ora sono alleati...avranno i voti solo dalle Lobby Massoniche e Finanziarie, la loro sarà ed è una politica falsa, farsata e di facciata!

MILANO - (Italia) – Svelata la lista Monti, lista unica per il Senato. Pier Ferdinando Casini è capolista in cinque regioni: Lazio, Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia. Capolista in Toscana è Pietro Ichino, in Umbria Linda Lanzillotta. Due i cattolici capolista: Andrea Olivero (Piemonte) e Gianpiero Della Zuanna (Veneto). A loro va aggiunto Mario Giro della Comunità di Sant’Egidio, terzo in Campania. L’intero elenco dei candidati è stato pubblicato sul sito Agenda Monti (guarda tutti i candidati).
“Le liste le abbiamo già chiuse”: nel tardo pomeriggio di sabato era stato proprio Casini a informare i giornalisti del buon esito del vertice a Montecitorio con Mario Monti e Gianfranco Fini. “Abbiamo parlato di politica, come sempre. Siamo in campagna elettorale, come sapete”, ha aggiunto il leader dell’Udc.
All’incontro era presente anche il ministro per la Cooperazione internazionale Andrea Riccardi. Il nodo era la definizione della lista unica al Senato (in particolare i candidati della Puglia), ma una volta sistemato questo punto si è discusso della linea e del programma, come ha precisato lo stesso Riccardi: “È stata una conversazione ad ampio spettro, importante, con Fini e Casini”. Quello che ne è emerso, ha spiegato Riccardi, è “una prospettiva per il Paese, che sta nascendo, e la necessità di continuare l’opera riformatrice. Abbiamo parlato molto del Mezzogiorno e delle famiglie italiane”.
Monti è poi protagonista di una simpatica gaffe. Si è detto “non completamente d’accordo” con Antonio Funiciello, presidente dell’associazione Libertà Eguale, che aveva collocato Fassina, Vendola, Fini e Bocchino tra quanti hanno ostacolato le riforme: “Casini e Bocchino”, ha detto Monti, hanno costituito quella “componente che, forse per ragioni tattiche, ha creato meno problemi alle riforme iniziate e che hanno trovato limiti seri perchè conservatori da una parte e l’altra del parlamento hanno posto dei limiti”. Mentre su Vendola e Fassina: “Non l’ho potuto vedere all’opera in Parlamento, ma Fassina… Non è onorevole? Questo dimostra che i laureati alla Bocconi sanno far sentire la propria voce anche in quelle sedi in cui non sono presenti”.

Fonte: http://www.blitzquotidiano.it

LA STAMPA DEL 13 FEBBRAIO 2008:  "Casini vuole contare di più, ma c’è Fini sulla sua strada!" (Il leader di An Gianfranco Fini a Silvio Berlusconi: perché noi rinunciamo al simbolo e lui no? Riferendosi a Pier Ferdinando Casini!)

LA REPUBBLICA DEL 12 NOVEMBRE 2006: "Cdl, Casini polemico con Gianfranco Fini, "Gli sarei grato se mi rispettasse!"

IL GIORNALE DEL 23 DICEMBRE 2012: MARIO MONTI DICHIARA, "Non lo so ancora. Ma dentro di me qualcosa mi dice di no!" Il presidente del Consiglio Mario Monti affida a una chiacchierata con il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari i dubbi che non gli hanno ancora permesso di sciogliere la riserva sul suo futuro impegno in politica.  

NON VOTATE PER LA LISTA MONTI, NON VOTATE PER QUESTA FINTA LISTA CIVICA, NON VOTATE QUESTA LISTA MENZOGNERA!
QUESTO E' UN PARTITO DI FACCENDIERI E TRADITORI! HANNO CANDIDATO AMICI, PARENTI, FIGLI, NIPOTI E PRONIPOTI COSI' COME E' NEL LORO STILE, COSI' COM'E' NELLO STILE DI GIANFRANCO FINI - ELISABETTA TUGLIANI! (CASA DI MONTECARLO DOCET) RICORDATE BENE DI CIO' CHE HANNO FATTO IN PASSATO: HANNO TRADITO I LORO IDEALI ED HANNO PENSATO SOLO AI LORO INTERESSI PRIVATI, HANNO PENSATO SOLO A LORO STESSI ED AL LORO PORTAFOGLIO!

     Alexander Mitrokhin



mercoledì 23 maggio 2012

Attentato al Giudice Giovanni Falcone, accadeva 20 anni fa: 23 Maggio 1992 - 23 Maggio 2012


Palermo (Sicilia) - Palermo ricorda Giovanni Falcone. Vent'anni fa, il 23 Maggio 1992 morivano a Capaci, l'attentato Mafioso piu' cruento degli ultimi 20 anni! Nei pressi di Palermo, il giudice antimafia, la moglie anch'essa magistrato, Francesca Morvillo e i 3 agenti della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicilio e Antonio Montinaro. Circa 500 chili di tritolo, posizionati in un tunnel scavato sotto l'autostrada tra il capoluogo siciliano e l'aeroporto di Punta Raisi, vennero fatti saltare in aria con un comando a distanza mentre Falcone e la sua scorta stavano transitando su due auto. L'esplosione fu devastante, spazzò via oltre 300 metri di strada coinvolgendo anche altre vetture. Esecutore materiale dell'attentato fu riconosciuto anni dopo Giovanni Brusca, fu lui, secondo i magistrati, a premere il tasto sul telecomando facendo esplodere l'ordigno. Quell'evento, insieme al successivo attentato costato la vita a Paolo Borsellino, segnò a suo modo una svolta nella lotta contro Cosa Nostra. Da allora, infatti, accanto alle ipotesi di collusioni tra Stato e mafia di cui si discute ancora oggi, si moltiplicarono i pentiti e le informazioni ricavate portarono all'arresto del capo della Cupola mafiosa, Totò Riina. 

Fonte: http://www.youtube.com/user/lucamengoni?feature=watch

Biografia del Giudice Giovanni Falcone, ucciso dalla Mafia Siciliana il 23 Maggio 1992 insieme alla moglie e alla sua scorta...

il giudice Giovanni FalconeDa: http://digilander.libero.it - Nato a Palermo (via Castrofilippo) il 20 maggio 1939, da Arturo, direttore del Laboratorio chimico provinciale, e da Luisa Bentivegna, Giovanni Falcone conseguì la laurea in Giurisprudenza nell'Università di Palermo nell'anno 1961, discutendo con lode una tesi sull' "Istruzione probatoria in diritto amministrativo". Era stato prima, dal '54, allievo del Liceo classico "Umberto"; e quindi aveva compiuto una breve esperienza presso l'Accademia navale di Livorno.
Dopo il concorso in magistratura, nel 1964, fu pretore a Lentini per trasferirsi subito come sostituto procuratore a Trapani, dove rimase per circa dodici anni. E in questa sede andò maturando progressivamente l'inclinazione e l'attitudine verso il settore penale: come egli stesso ebbe a dire, "era la valutazione oggettiva dei fatti che mi affascinava", nel contrasto con certi meccanismi "farraginosi e bizantini" particolarmente accentuati in campo civilistico.
A Palermo, all'indomani del tragico attentato al giudice Cesare Terranova (25 settembre 1979), cominciò a lavorare all'Ufficio istruzione. Il consigliere istruttore Rocco Chinnici gli affidò nel maggio '80 le indagini contro Rosario Spatola, vale a dire un processo che investiva anche la criminalità statunitense, e che, d'altra parte, aveva visto il procuratore Gaetano Costa - ucciso poi nel giugno successivo - ostacolato da alcuni sostituti, al momento della firma di una lunga serie di ordini di cattura. Proprio in questa prima esperienza egli avvertì come nel perseguire i reati e le attività di ordine mafioso occorresse avviare indagini patrimoniali e bancarie (anche oltre oceano), e come, soprattutto, occorresse la ricostruzione di un quadro complessivo, una visione organica delle connessioni, la cui assenza, in passato, aveva provocato la "raffica delle assoluzioni".
Il 29 luglio 1983 il consigliere Chinnici fu ucciso con la sua scorta, in via Pipitone Federico; lo sostituì Antonino Caponnetto, il quale riprese l'intento di assicurare agli inquirenti le condizioni più favorevoli nelle indagini sui delitti di mafia. Si costituì allora, per le necessità interne a queste indagini, il cosiddetto "pool antimafia", sul modello delle èquipes attive nel decennio precedente di fronte al fenomeno del terrorismo politico. Del gruppo faceva parte, oltre lo stesso Falcone, e i giudici Di Lello e Guarnotta, anche Paolo Borsellino, che aveva condotto l'inchiesta sull'omicidio, nel 1980, del capitano del Carabinieri Emanuele Basile.
il giudice Giovanni Falcone Si può considerare una svolta, per la conoscenza non solo di determinati fatti di mafia, ma specialmente della struttura dell'organizzazione Cosa nostra, l'interrogatorio iniziato a Roma nel luglio '84 in presenza del sostituto procuratore Vincenzo Geraci e di Gianni De Gennaro, del Nucleo operativo della Criminalpol, del "pentito" Tommaso Buscetta.
I funzionani di Polizia Giuseppe Montana e Ninni Cassarà, stretti collaboratori di Falcone e Borsellino, furono uccisi nell'estate '85. Fu allora che si cominciò a temere per l'incolumità anche dei due magistrati. I quali furono indotti, per motivi di sicurezza, a soggiornare qualche tempo con le famiglie presso il carcere dell'Asinara.
Si giunse così - attraverso queste vicende drammatiche - alla sentenza di condanna a Cosa nostra del primo maxiprocesso, emessa il 16 dicembre 1987 dalla Corte di assise di Palermo, presidente Alfonso Giordano, dopo ventidue mesi di udienze e trentasci giorni di riunione in camera di consiglio. L'ordinanza di rinvio a giudizio per i 475 imputati era stata depositata dall'Ufficio istruzione agli inizi di novembre di due anni prima.
Gli avvenimenti successivi risentirono con tutta evidenza in senso negativo di tale successo. Nel gennaio il Consiglio superiore della magistratura preferì nominare a capo dell'Ufficio istruzione, in luogo di Caponnetto che aveva voluto lasciare l'incarico, il consigliere Antonino Meli. Il quale avocò a sè‚ tutti gli atti. Sopraggiunse poi un nuovo episodio ad accentuare ulteriormente le tensioni nell'ambito dell'Ufficio stesso, un episodio che ebbe gravissime conseguenze su tutte le indagini antimafia. In seguito alle confessioni del "pentito" catanese Antonino Calderone, che avevano determinato una lunga serie di arresti (comunemente nota come "blitz delle Madonie"), Il magistrato inquirente di Termini Imerese si ritenne incompetente, e trasmise gli atti all'Ufficio palermitano. Ma il Meli, in contrasto con i giudici del pool rinvio le carte a Termini, in quanto i reati sarebbero stati commessi in quella giurisdizione. La Cassazione, allo scorcio dell'88, ratificò l'opinione del consigliere istruttore, negando la struttura unitaria e verticisti delle organizzazioni criminose, e affermando che queste, considerate nel loro complesso, sono dotate di "un ampia sfera decisionale, operano in ambito territoriale diverso ed hanno preponderante diversificazione soggettiva". Questa decisione sanciva giuridicamente la frantumazione delle indagini, che l'esperienza di Palermo aveva inteso superare. Il 30 luglio Falcone richiese di essere destinato a un altro ufficio. In autunno Meli gli rivolse l'accusa d'aver favorito in qualche modo il cavaliere del lavoro di Catania Carmelo Costanzo, e quindi sciolse il pool, come Borsellino aveva previsto fin dall'estate in un pubblico intervento, peraltro censurato dal Consiglio superiore. I giudici Di Lello e Conte si dimisero per protesta.
il giudice Giovanni FalconeSu tutta questa vicenda del resto, nel giugno '92, durante un dibattito promosso a Palermo dalla rivista "Micromega", Borsellino ebbe a ricordare: "La protervia del consigliere istruttore Meli l'intervento nefasto della Corte di cassazione cominciato allora e continuato fino a oggi, non impedirono a Falcone di continuare a lavorare con impegno". Nonostante simili avvenimenti, infatti, sempre nel corso dell'88, Falcone aveva realizzato una importante operazione in collaborazione con Rudolph Giuliani, procuratore distrettuale di New York, denominata "lron Tower": grazie alla quale furono colpite le famiglie dei Gambino e degli Inzerillo, coinvolte nel traffico di eroina.
Il 20 giugno '89 si verificò il fallito e oscuro attentato dell'Addaura presso Mondello; a proposito del quale Falcone affermò "Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno
spinto qualcuno ad assassinarmi". Seguì subito l'episodio, sconcertante, del cosiddetto "corvo", ossia di alcune lettere anonime dirette ad accusare astiosamente lo stesso Falcone e altri. Le indagini relative furono compiute anche dall'Alto commissario per la lotta alla mafia, guidato dal prefetto D. Sica.
Una settimana dopo l'attentato il Consiglio superiore decise la nomina di Falcone a procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo. Nel gennaio '90 egli coordinò un'inchiesta che portò all'arresto di quattordici trafficanti colombiani e siciliani, inchiesta che aveva preso l'avvio dalle confessioni del "pentito" Joe Cuffaro' il quale aveva rivelato che il mercantile Big John, battente bandiera cilena, aveva scaricato, nel gennaio '88, 596 chili di cocaina al largo delle coste di Castellammare del Golfo.
Nel corso dell'anno si sviluppa lo "scontro" con Leoluca Orlando, originato dall'incriminazione per calunnia nei confronti del "pentito" Pellegriti, il quale rivolgeva accuse al parlamentare europeo Salvo Lima. La polemica proseguì col ben noto argomento delle "carte nei cassetti": e che Falcone ritenne frutto di puro e semplice "cinismo politico".
Alle elezioni del 1990 dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura, Falcone, fu candidato per le liste "Movimento per la giustizia" e "Proposta 88" (nella circostanza collegate), con esito però negativo.
Intanto, fattisi più aspri i dissensi con l'allora procuratore P. Giammanco - sia sul piano valutativo, sia su quello etico, nella conduzione delle inchieste - egli accolse l'invito del vice-presidente del Consiglio dei ministri, C. Martelli, che aveva assunto l'interim del Ministero di grazia e giustizia, a dirigere gli Affari penali del ministero, assumendosi l'onere di coordinare una vasta materia, dalle proposte di riforme legislative alla collaborazione internazionale. Si apriva così un periodo - dal marzo del 1991 alla morte - caratterizzato da una attività intensa, volta a rendere più efficace l'azione della magistratura nella lotta contro il crimine. Falcone si impegnò a portare a termine quanto riteneva condizione indispensabile del rinnovamento: e cioè la razionalizzazione dei rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, e il coordinamento tra le varie procure. A quest'ultimo riguardo, caduta l'ipotesi iniziale, di affidare il delicato compito alle procure generali, la costituzione di procure distrettuali facenti capo ai procuratori della Repubblica parve la soluzione più idonea. Ma si poneva altresì l'istanza di un coordinamento di livello nazionale. Istituita nel novembre del '91 la Direzione nazionale antimafia, sulle funzioni di questa il giudice dunque si soffermò anche nel corso della sua audizione al Palazzo dei Marescialli del 22 marzo '92. "Io credo - egli chiarì in tale circostanza, secondo un resoconto della seduta pubblicato dal settimanale "L'Espresso" (7 giu. '92) - che il procuratore nazionale antimafia abbia il compito principale di rendere effettivo il coordinamento delle indagini, di garantire la funzionalità della polizia giudiziaria e di assicurare la completezza e la tempestività delle investigazioni. Ritengo che questo dovrebbe essere un organismo di supporto e di sostegno per l'attività investigativa che va svolta esclusivamente dalle procure distrettuali antimafia".
l'automobile distrutta su cui viaggiavano il giudice Giovanni Falcone e la moglie Francesca MorvilloLa sua candidatura a questi compiti, peraltro, fu ostacolata in seno al Consiglio superiore della magistratura, il cui plenum, tuttavia, non aveva ancora assunto una decisione definitiva, quando sopraggiunse la strage di Capaci del 23 maggio. Frattanto - giova ricordarlo - una sentenza della prima sezione penale della Corte suprema di cassazione il 30 gennaio, sotto la presidenza di Arnaldo Valente (relatore Schiavotti) aveva riconosciuto la struttura verticale di Cosa nostra, e quindi la responsabilità dei componenti della "cupola" per quei delitti compiuti dagli associati, che presuppongano una decisione al vertice; inoltre aveva ribadito la validità e l'importanza delle chiamate in correità.
Insieme a Falcone, a Capaci, persero la vita la moglie Francesca Morvilio, magistrato, e gli agenti di scorta Rocco Di Cillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro. All'esecrazione dell'assassinio, il 4 giugno si unì il Senato degli Stati Uniti, con una risoluzione (la n. 308) intesa a rafforzare l'impegno del gruppo di lavoro italo-americano, di cui Falcone era componente.
(Profilo biografico tratto dal sito della Fondazione Giovanni e Francesca Falcone )
il giudice Giovanni Falcone"Un uomo fa quello che è suo dovere fare, quali che siano le conseguenze personali, quali che siano gli ostacoli, i pericoli o le pressioni.
Questa è la base di tutta la moralità umana."
(J. F. Kennedy; citazione che Giovanni Falcone amava spesso riferire)

Giovanni Falcone, chi era il Giudice ucciso brutalmente dalla Mafia Siciliana il 23 Maggio 1992 insieme alla moglie e alla sua scorta...

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« La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni. »

(Giovanni Falcone, in un'intervista a Raitre)
Giovanni Falcone
Giovanni Falcone (Palermo, 18 maggio 1939[1]Palermo, 23 maggio 1992[2]) è stato un magistrato italiano. Assassinato insieme alla moglie e alla scorta dalla mafia, è considerato un eroe italiano, come Paolo Borsellino, di cui fu amico e collega.

Indice

Biografia

Un murales rappresentante i magistrati Falcone (a sinistra) e Borsellino
Figlio di Arturo, direttore del Laboratorio chimico provinciale, e di Luisa Bentivegna, aveva due sorelle maggiori, Anna e Maria. Giovanni Falcone studiò al Convitto Nazionale di Palermo, poi al liceo classico "Umberto I" e successivamente, dopo una breve esperienza all'Accademia Navale di Livorno, si iscrisse a giurisprudenza all'Università degli studi di Palermo dove si laureò nel 1961, con una tesi sulla "Istruzione probatoria in diritto amministrativo".[3]

Gli inizi in Magistratura

Falcone vinse il concorso in Magistratura nel 1964 e in quello stesso anno sposa la prima moglie Rita Bonnici, da cui divorzierà quattordici anni dopo. Per breve tempo fu pretore a Lentini. Fu poi sostituto procuratore al tribunale di Trapani per dodici anni. Qui, a poco a poco, nacque in lui la passione per il diritto penale.[4]
Fu trasferito a Palermo nel luglio 1978. Dopo l'omicidio del giudice Cesare Terranova fece domanda ed ottenne di lavorare all'Ufficio istruzione, che sotto la successiva guida di Rocco Chinnici, diviene un esempio innovativo di organizzazione giudiziaria. Chinnici chiamò al suo fianco anche Paolo Borsellino che divenne collega di Falcone nello sbrigare il lavoro arretrato di oltre cinquecento processi[5]. Nel maggio 1980 Chinnici affidò a Falcone le indagini contro Rosario Spatola: un lavoro che coinvolgeva anche criminali negli Stati Uniti e all'epoca osteggiato da alcuni altri magistrati.
Alle prese con questo caso, Falcone comprese che per indagare con successo le associazioni mafiose era necessario basarsi anche su indagini patrimoniali e bancarie. Ricostruire il percorso del denaro che accompagnava i traffici ed avere un quadro complessivo del fenomeno. Notò che gli stupefacenti venivano venduti negli Stati Uniti così chiese a tutti i direttori delle banche di Palermo e provincia di mandargli le distinte di cambio valuta estera dal 1975 in poi. Alcuni telefonarono personalmente a Falcone per capire che intenzione avesse e lui rimase fermo sulle sue richieste[6]. Grazie ad un attento controllo di tutte le carte richieste, una volta superate le reticenze delle banche, e "seguendo i soldi" riuscì ad iniziare a vedere il quadro di una gigantesca organizzazione criminale: i confini di Cosa nostra. Grazie ad un assegno dell'importo di centomila dollari cambiato presso la Cassa di Risparmio di piazza Borsa di Palermo, Falcone, trovò la prova che Michele Sindona si trovava in Sicilia smascherando quindi il finto sequestro organizzato a suo favore dalla mafia siculo-americana alla vigilia del suo giudizio[6]. Nei primi giorni del mese di dicembre 1980 Giovanni Falcone si recò per la prima volta a New York per discutere di mafia e stringere una collaborazione con Victor Rocco, investigatore del distretto est[7].
Sono anni tumultuosi che vedono la prepotente ascesa dei Corleonesi, i quali impongono il proprio feudo criminale insanguinando le strade a colpi di omicidi. Emblematici i titoli del quotidiano palermitano L'Ora, che arriverà a titolare le sue prime pagine enumerando le vittime della drammatica guerra di mafia. Tra queste vittime anche svariati e valorosi servitori dello Stato come Pio La Torre, principale artefice della legge Rognoni-La Torre (che introdusse nel codice penale il reato di associazione mafiosa), e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Infine lo stesso Chinnici, al quale succedette Antonino Caponnetto.

Gli anni del Pool antimafia

Caponnetto si insedia concependo la creazione di un "pool" di pochi magistrati che, così come sperimentato contro il terrorismo, potessero occuparsi dei processi di mafia, esclusivamente e a tempo pieno, col vantaggio sia di favorire la condivisione delle informazioni tra tutti i componenti e minimizzare così i rischi personali, che per garantire in ogni momento una visione più ampia ed esaustiva possibile di tutte le componenti del fenomeno mafioso.
Nello scegliere i suoi uomini, Caponnetto pensa subito a Falcone per l'esperienza ed il prestigio già da lui acquisiti, ed a Giuseppe Di Lello, pupillo di Chinnici. Lo stesso Falcone suggerì poi l'introduzione di Borsellino, mentre la scelta dell'ultimo membro ricadde sul giudice più anziano, Leonardo Guarnotta. La validità del nuovo sistema investigativo si dimostra subito indiscutibile, e sarà fondamentale per ogni successiva indagine, negli anni a venire.
Ma una vera e propria svolta epocale alla lotta alla mafia sarebbe stata impressa con l'arresto di Tommaso Buscetta, il quale, dopo una drammatica sequenza di eventi, decise di collaborare con la Giustizia. Il suo interrogatorio, iniziato a Roma nel luglio 1984 in presenza del sostituto procuratore Vincenzo Geraci e di Gianni De Gennaro del Nucleo operativo della Criminalpol, si rivelerà determinante per la conoscenza non solo di determinati fatti, ma specialmente della struttura e delle chiavi di lettura dell'organizzazione definita Cosa nostra.

Il maxiprocesso di Palermo

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi la voce Maxiprocesso di Palermo.
Le inchieste avviate da Chinnici e portate avanti dalle indagini di Falcone e di tutto il pool portarono così a costituire il primo grande processo contro la mafia.
Questa reagì bruciando il terreno attorno ai giudici: dopo l'omicidio di Giuseppe Montana e Ninni Cassarà nell'estate 1985, stretti collaboratori di Falcone e Borsellino, si cominciò a temere per l'incolumità anche dei due magistrati, che furono indotti per motivi di sicurezza a soggiornare qualche tempo con le famiglie presso il carcere dell'Asinara (incredibilmente dovettero pagarsi le spese di soggiorno e consumo bevande, come ricordò Borsellino in un'intervista), dove gettarono le basi dell'istruttoria.
Ma il 16 novembre 1987 diventa una data storica e insieme un momento fondamentale per il Paese, che per la prima volta inchioda la mafia traducendola alla Giustizia. Il Maxiprocesso sentenzia 360 condanne per complessivi 2665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare, segnando un grande successo per il lavoro svolto da tutto il pool antimafia.[8]
Nel dicembre 1986, Borsellino viene nominato Procuratore della Repubblica di Marsala e lascia il pool. Come ricorderà Caponnetto, a quel punto gli sviluppi dell'istruttoria includono ormai quasi un milione di fogli processuali, rendendo necessaria l'integrazione di nuovi elementi per seguire l'accresciuta mole di lavoro. Entrarono così a far parte del pool altri tre giudici istruttori: Ignazio De Francisci, Gioacchino Natoli e Giacomo Conte.

La fine del Pool Antimafia

Se lo Stato aveva conseguito una vittoria memorabile, la partita era lungi da considerarsi conclusa. Inoltre, Caponnetto si apprestava a lasciare l'incarico per ragioni di salute, e raggiunti limiti di età. Alla sua sostituzione vennero candidati Falcone, ed Antonino Meli. Nel settembre 1987, dopo una discussa votazione, il Consiglio Superiore della Magistratura nominò Meli. A favore di Falcone, votò anche il futuro Procuratore della Repubblica di Palermo, Giancarlo Caselli, in dissenso con la corrente di Magistratura Democratica cui apparteneva.
La scelta di Meli, generalmente motivata in base alla mera anzianità di servizio, piuttosto che alla maggiore competenza effettivamente maturata da Falcone, innescò amare polemiche, e venne interpretata come una possibile rottura dell'azione investigativa, inoltre rese Falcone un bersaglio molto più facile per la mafia, perché la sua perdita aveva dimostrato che effettivamente non era stimato come si credeva; Borsellino stesso aveva lanciato a più riprese l'allarme a mezzo stampa, rischiando conseguenze disciplinari; esternazioni che di fatto non sortirono alcun effetto.
Meli si insedia nel gennaio 1988 e finisce con lo smantellare il metodo di lavoro intrapreso, riportandolo indietro di un decennio. Da qui in poi Falcone e i suoi dovettero fronteggiare un numero sempre crescente di ostacoli alla loro attività. La mafia intanto non ha abbassato la guardia, ed uccide l'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, che aveva denunciato le pressioni subite da Vito Ciancimino durante il suo mandato. Tempo dopo, i due membri del pool Di Lello e Conte si dimisero polemicamente. Non ultimo, persino la Cassazione sconfessò l'unitarietà delle indagini in fatto di mafia affermata da Falcone.
Il 30 luglio Falcone richiese addirittura di essere destinato a un altro ufficio, e Meli, ormai in aperto contrasto con Falcone, come predetto da Borsellino, sciolse ufficialmente il pool. Un mese dopo, Falcone ebbe l'ulteriore amarezza di vedersi preferito Domenico Sica alla guida dell'Alto Commissariato per la lotta alla Mafia. Nonostante gli avvenimenti, tuttavia, Falcone proseguì ancora una volta il suo straordinario lavoro, realizzando un'importante operazione antidroga in collaborazione con Rudolph Giuliani, allora procuratore distrettuale di New York.

Il fallito attentato dell'Addaura e la vicenda del "corvo"

Il 21 giugno 1989, Falcone divenne obiettivo di un attentato presso la villa al mare affittata per le vacanze; su questo avvenimento, comunemente detto attentato dell'Addaura, ancora oggi non è stata fatta piena luce[9].
I sicari di Totò Riina e di altri mafiosi ritenuti mandanti, piazzarono un borsone con cinquantotto candelotti di tritolo in mezzo agli scogli, a pochi metri dalla villa affittata dal giudice, che stava per ospitare i colleghi Carla del Ponte e Claudio Lehmann. Il piano era probabilmente quello di assassinare il giudice allorché fosse sceso dalla villa sulla spiaggia per fare il bagno, ma l'attentato fallì. Inizialmente venne ritenuto che i killer non fossero riusciti a far esplodere l'ordigno a causa di un detonatore difettoso, dandosi quindi alla fuga e abbandonando il borsone. Vent'anni dopo, nuove ipotesi investigative avallerebbero invece la ricostruzione che l'ordigno venne reso inoffensivo nelle ore notturne antecedenti dagli agenti Antonino Agostino ed Emanuele Piazza, fintisi sommozzatori. Agostino e Piazza verranno poi assassinati.
Falcone dichiarò al riguardo che a volere la sua morte si trattava probabilmente di qualcuno che intendeva bloccarne l’inchiesta sul riciclaggio in corso, parlando inoltre di "menti raffinatissime", e teorizzando la collusione tra soggetti occulti e criminalità organizzata, come avvenuto per l'omicidio Dalla Chiesa. Espressioni in cui molti lessero i servizi segreti deviati. Il giudice, in privato, si manifestò sospettando di Bruno Contrada, funzionario del Sisde che aveva costruito la sua carriera al fianco di Boris Giuliano. Contrada verrà poi arrestato e condannato in primo grado a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, sentenza poi confermata in Cassazione.
Ma al Palazzo di Giustizia di Palermo aveva preso corpo anche la nota vicenda del "corvo": una serie di lettere anonime (di cui un paio addirittura composte su carta intestata della Criminalpol), che diffamarono il giudice ed i colleghi Giuseppe Ayala, Giammanco Prinzivalli più altri come il Capo della Polizia di Stato, Vincenzo Parisi, ed importanti investigatori come De Gennaro e Antonio Manganelli. In esse Falcone veniva millantato soprattutto di avere "pilotato" il ritorno di un pentito, Totuccio Contorno, al fine di sterminare i corleonesi, storici nemici della sua famiglia.
I fatti descritti venivano presentati come movente della morte di Falcone ad opera dei corleonesi, i quali avrebbero organizzato il poi fallito attentato come vendetta per il rientro di Contorno (e non, si badi, per i decenni di inflessibile lotta senza quartiere che Falcone aveva scatenato contro di loro...). I contenuti, particolarmente ben dettagliati sulle presunte coperture del Contorno e gli accadimenti all'interno del tribunale, furono alimentati ad arte sino a destare notevole inquietudine negli ambienti giudiziari, tanto che nello stesso ambiente degli informatori di polizia queste missive vennero attribuite ad un "corvo", ossia un magistrato.
Sebbene sul momento la stampa non lo spiegasse apertamente al grande pubblico, infatti, tra gli esperti di "cose di cosa nostra" (come Falcone) era risaputo che, nel linguaggio mafioso, tale appellativo designasse proprio i magistrati (dalla toga nera che indossano in udienza); le missive avrebbero così inteso insinuare la certezza che in realtà il pool operasse al di fuori dalle regole, immerso tra invidie, concorrenze e gelosie professionali.
Gli accertamenti per individuare gli effettivi responsabili portarono alla condanna in primo grado per diffamazione del giudice Alberto Di Pisa, identificato grazie a dei rilievi dattiloscopici. Le impronte digitali - raccolte con un artificio dal magistrato inquirente - furono però dichiarate processualmente inutilizzabili, oltre a lasciare dubbi sulla loro validità probatoria (sia il bicchiere di carta su cui erano state prelevate le impronte, sia l'anonimo con cui furono confrontate, erano alquanto deteriorati).
Una settimana dopo il fallito attentato, il C.S.M. decise la nomina di Falcone a procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica. Di Pisa, che tre mesi dopo davanti al C.S.M. avrebbe mosso gravi rilievi allo stesso Falcone sia sulla gestione dei pentiti che sull'operato, verrà poi assolto in Appello per non aver commesso il fatto[10].
Molti testimoni diretti dei fatti dell'Addaura morirono in circostanze sospette: Antonino Agostino, agente del SISDE, che si ipotizza lavorasse per proteggere Falcone, venne ucciso insieme alla moglie Ida Castelluccio il 5 agosto del 1989 da un commando in motocicletta; Emanuele Piazza, collega di Agostino al SISDE, venne ucciso per strangolamento dalla mafia il 15 marzo 1990; il microcriminale Francesco Paolo Gaeta, che quel giorno aveva casualmente assistito alle manovre militari intorno alla villa del giudice, venne ucciso a colpi di pistola il 2 settembre 1992; il mafioso Luigi Ilardo, informatore del colonnello dei carabinieri Michele Riccio - e che a questi aveva confidato di sapere che «a Palermo c'era un agente che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro. Siamo venuti a sapere che era anche nei pressi di Villagrazia quando uccisero il poliziotto Agostino» - venne assassinato il 10 maggio 1996, qualche giorno prima di mettere a verbale le sue confessioni[9].

La stagione dei veleni

Nell'agosto 1989 iniziò a collaborare coi magistrati anche il mafioso Giuseppe Pellegriti, fornendo preziose informazioni sull’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, e rivelando al pubblico ministero Libero Mancuso di essere venuto a conoscenza, tramite il boss Nitto Santapaola, di fatti inediti sul ruolo del politico Salvo Lima negli omicidi di Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Mancuso informò subito Falcone, che interrogò il pentito a sua volta, e, dopo due mesi di indagini, lo incriminò insieme ad Angelo Izzo, spiccando nei loro confronti due mandati di cattura per calunnia (poi annullati dal Tribunale della libertà in quanto essi erano già in carcere). Pellegriti, dopo l’incriminazione, ritrattò, attribuendo a Izzo di essere l’ispiratore delle accuse.
Lima e la corrente di Giulio Andreotti, erano spregiati dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, e tutto il movimento antimafia, e l’incriminazione di Pellegriti venne vista come una sorta di cambiamento di rotta del giudice dopo il fallito attentato, tanto che ricevette nuove e dure critiche al suo operato da parte di esponenti come Carmine Mancuso, Alfredo Galasso e in maniera minore anche da Nando Dalla Chiesa, figlio del compianto generale. Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione Antimafia, scriverà poi, in riferimento al fallito attentato all'Addaura contro Falcone: «I seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità».
Nel gennaio '90, Falcone coordina un'altra importante inchiesta che porta all'arresto di trafficanti di droga colombiani e siciliani. Ma a maggio riesplose, violentissima, la polemica, allorquando Orlando interviene alla seguitissima trasmissione televisiva di Rai 3, Samarcanda dedicata all'omicidio di Giovanni Bonsignore, scagliandosi contro Falcone, che, a suo dire, avrebbe "tenuto chiusi nei cassetti" una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti della mafia[11]. Le accuse erano indirizzate anche verso il giudice Roberto Scarpinato, oltre al procuratore Pietro Giammanco, ritenuto vicino ad Andreotti. Si asseriscono responsabilità politiche alle azioni della cupola mafiosa (il cosiddetto "terzo livello") ma Falcone dissente sostanzialmente da queste conclusioni, sostenendo, come sempre, la necessità di prove certe e bollando simili affermazioni come "cinismo politico". Rivolto direttamente ad Orlando, dirà: "Questo è un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario che noi rifiutiamo. Se il sindaco di Palermo sa qualcosa, faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma le responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati"[12] La polemica ha continuato ad alimentarsi anche dopo la morte del giudice Falcone. In particolare, la sorella Maria Falcone in un collegamento telefonico con il programma radiofonico "Mixer" ha accusato Leoluca Orlando di aver infangato suo fratello, « hai infangato il nome, la dignità e l' onorabilità di un giudice che ha sempre dato prova di essere integerrimo e strenuo difensore dello Stato contro la mafia[...]lei ha approfittato di determinati limiti dei procedimenti giudiziari, per fare, come diceva Giovanni, politica attraverso il sistema giudiziario»[13]. In un'intervista a Klauscondicio, Leoluca Orlando ha dichiarato di non essersi pentito riguardo alle accuse che rivolse a Falcone.
Ad Anno zero il senatore Roberto Castelli all'epoca Ministro della Giustizia, ha accusato Leoluca Orlando di aver indebitamente attaccato Giovanni Falcone perché il giudice siciliano aveva fatto riarrestare Ciancimino, colpevole di aver stretto affari con lo stesso Orlando.
Nel settembre 1991 Salvatore Cuffaro, all'epoca deputato regionale poi presidente della Regione Siciliana per il centro-destra ed eurodeputato UDC, intervenne ad una puntata speciale della trasmissione televisiva Samarcanda condotta da Michele Santoro in collegamento con il Maurizio Costanzo Show e dedicata alla commemorazione dell'imprenditore Libero Grassi, ucciso dalla mafia. In quella occasione, Cuffaro - presente tra il pubblico - si scagliò con veemenza contro conduttori ed ospiti (tra cui Falcone), sostenendo come le iniziative portate avanti da un certo tipo di "giornalismo mafioso" fossero degne dell'attività mafiosa vera e propria, tanto criticata e comunque lesive della dignità della Sicilia. Cuffaro parlò di certa magistratura "che mette a repentaglio e delegittima la classe dirigente siciliana", con chiaro riferimento a Mannino, in quel momento uno dei politici più influenti della Dc[14].
In un'intervista del 2008 al Corriere della Sera il Presidente emerito Francesco Cossiga ha imputato al Csm grosse responsabilità riguardo alla morte del Giudice Falcone, ha infatti affermato : "i primi mafiosi stanno al CSM. [Sta scherzando?] Come no? Sono loro che hanno ammazzato Giovanni Falcone negandogli la DNA e prima sottoponendolo a un interrogatorio. Quel giorno lui uscì dal CSM e venne da me piangendo. Voleva andar via. Ero stato io a imporre a Claudio Martelli di prenderlo al Ministero della Giustizia."
La polemica sancì la rottura del fronte antimafia, e da allora in poi Cosa Nostra si avvantaggerà della tensione strisciante nelle istituzioni, cosa che avvelenò sempre più il clima attorno a Falcone, isolandolo. Alle seguenti elezioni dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura del 1990, Falcone venne candidato per le liste collegate "Movimento per la giustizia" e "Proposta 88", ma non viene eletto. Fattisi poi via via sempre più aspri i dissensi con Giammanco, Falcone optò per accettare la proposta di Claudio Martelli, allora vicepresidente del Consiglio e ministro di Grazia e Giustizia ad interim, a dirigere la sezione Affari Penali del ministero.

L'ultima battaglia

In questo periodo, che va dal 1991 alla sua morte, Falcone fu molto attivo, cercando in ogni modo di rendere più incisiva l'azione della magistratura contro il crimine. Tuttavia, la vicinanza di Giovanni Falcone al socialista Claudio Martelli costò al magistrato siciliano violenti attacchi da buona parte del mondo politico. In particolare, l'appoggio di Martelli fece destare sospetti da parte dei partiti di centro sinistra che fino ad allora avevano appoggiato una possibile candidatura di Falcone.
Falcone in realtà profuse tutta la propria professionalità nel preparare leggi che il Parlamento avrebbe successivamente approvato, ed in particolare sulla procura nazionale antimafia.
Alcuni magistrati, tra i quali lo stesso Paolo Borsellino, criticarono poi il progetto della Superprocura, denunciando il rischio che essa costituisse paradossalmente un elemento strategico nell'allontanamento di Falcone dal territorio siciliano e nella neutralizzazione reale delle sue indagini.[15]
Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone è costretto a difendersi davanti al CSM in seguito all'esposto presentato il mese prima (l'11 settembre) da Leoluca Orlando. L'esposto contro Falcone era il punto di arrivo della serie di accuse mosse da Orlando al magistrato palermitano, il quale ribatté ancora alle accuse definendole «eresie, insinuazioni» e «un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario». Sempre davanti al CSM Falcone, commentando il clima di sospetto creatosi a Palermo, affermò che «non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo».
In questo contesto fortemente negativo, nel marzo 1992 viene assassinato Salvo Lima, omicidio che rappresenta un importante segnale dell'inasprimento della strategia mafiosa la quale rompe così gli equilibri consolidati ed alza il tiro verso lo Stato per ridefinire alleanze e possibili collusioni. Falcone era stato informato poco più di un anno prima con un dossier dei Carabinieri del ROS che analizzava l'imminente neo-equilibrio tra mafia, politica ed imprenditoria, ma il nuovo incarico non gli aveva permesso di ottemperare ad ulteriori approfondimenti.
L'albero davanti al palazzo dove abitava Falcone
Il ruolo di "Superprocuratore" a cui stava lavorando avrebbe consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile. Ma ancor prima che egli vi venisse formalmente indicato, si riaprirono ennesime polemiche sul timore di una riduzione dell'autonomia della Magistratura ed una subordinazione della stessa al potere politico. Esse sfociarono per lo più in uno sciopero dell'Associazione Nazionale Magistrati e nella decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che per la carica gli oppose inizialmente Agostino Cordova.
Sostenuto da Martelli, Falcone rispose sempre con lucidità di analisi e limpidezza di argomentazioni, intravedendo, presumibilmente, che il coronamento della propria esperienza professionale avrebbe definito nuovi e più efficaci strumenti al servizio dello Stato. Eppure, nonostante la sua determinazione, egli fu sempre più solo all'interno delle istituzioni, condizione questa che prefigurerà tristemente la sua fine. Emblematicamente, Falcone ottenne i numeri per essere eletto Superprocuratore il giorno prima della sua morte.
Nell'intervista rilasciata a Marcelle Padovani per "Cose di Cosa Nostra", Falcone attesta la sua stessa profezia: "Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere."

La strage di Capaci

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi la voce Strage di Capaci.
Giovanni Falcone viene assassinato in quella che comunemente è detta strage di Capaci, il 23 maggio 1992[16]. Stava tornando, come era solito fare nei fine settimana, da Roma. Il jet di servizio partito dall'aeroporto di Ciampino intorno alle 16:45 arriva a Punta Raisi dopo un viaggio di 53 minuti. Lo attendono tre Fiat Croma blindate, con un gruppo di scorta sotto il comando dell'allora capo della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera.
Appena sceso dall'aereo, Falcone si sistema alla guida della Croma bianca, ed accanto prende posto la moglie Francesca Morvillo mentre l'autista giudiziario Giuseppe Costanza va ad occupare il sedile posteriore. Nella Croma marrone c'è alla guida Vito Schifani, con accanto l'agente scelto Antonio Montinaro e sul retro Rocco Dicillo, mentre nella vettura azzurra ci sono Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Al gruppo è in testa la Croma marrone, poi la Croma bianca guidata da Falcone, e in coda la Croma azzurra. Alcune telefonate avvisano della partenza i sicari che hanno sistemato l'esplosivo per la strage.
I particolari sull'arrivo del giudice dovevano essere coperti dal più rigido riserbo; indicativo del clima di sospetto che si viveva nel Paese, è il fatto che nell'aereo di Stato - che lo riportava a Palermo - avevano avuto un passaggio diversi "grandi elettori" (deputati, senatori e delegati regionali) siciliani reduci dagli scrutini di Montecitorio per l'elezione del Capo dello Stato, prolungatisi invano fino al sabato mattina. Uno di essi sarebbe stato addirittura inquisito per associazione a delinquere di stampo mafioso tre anni dopo; ma nessuna verità definitiva fu acquisita in sede processuale sull'identità della fonte che aveva comunicato alla mafia la partenza di Falcone da Roma e l'arrivo a Palermo per l'ora stabilita.
Le auto lasciano l'aeroporto imboccando l'autostrada in direzione Palermo. La situazione appare tranquilla, tanto che non vengono attivate neppure le sirene. Su una strada parallela, una macchina si affianca agli spostamenti delle tre Croma blindate, per darne segnalazione ai killer in agguato sulle alture sovrastanti il litorale; sono gli ultimi secondi prima della strage.
Otto minuti dopo, alle ore 17:58, presso il km 5 della A29, una carica di cinque quintali di tritolo posizionata in una galleria scavata sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine viene azionata per telecomando da Giovanni Brusca, il sicario incaricato da Totò Riina. Pochissimi istanti prima della detonazione, Falcone si era accorto che le chiavi di casa erano nel mazzo assieme alle chiavi della macchina, e le aveva tolte dal cruscotto, provocando un rallentamento improvviso del mezzo. Brusca, rimasto spiazzato, preme il pulsante in anticipo, sicché l'esplosione investe in pieno solo la Croma marrone, prima auto del gruppo, scaraventandone i resti oltre la carreggiata opposta di marcia, e su fino ad una zona pianeggiante alberata; i tre agenti di scorta muoiono sul colpo.
La seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, avendo rallentato, si schianta invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio. Falcone e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, vengono proiettati violentemente contro il parabrezza. Falcone, che riporta ferite solo in apparenza non gravi, muore dopo il trasporto in ospedale a causa di varie emorragie interne.
Rimangono feriti gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, che infine resiste, e si salvano miracolosamente anche un'altra ventina di persone che al momento dell'attentato si trovano a transitare con le proprie autovetture sul luogo dell'eccidio.
La detonazione provoca un'esplosione immane ed una voragine enorme sulla strada.[17]. In un clima irreale e di iniziale disorientamento, altri automobilisti ed abitanti dalle villette vicine danno l'allarme alle autorità e prestano i primi soccorsi tra la strada sventrata ed una coltre di polvere.
Venti minuti dopo circa, Giovanni Falcone viene trasportato sotto stretta scorta di un corteo di vetture e di un elicottero dell'Arma dei Carabinieri presso l'ospedale Civico di Palermo. Gli altri agenti e i civili coinvolti vengono anch'essi trasportati in ospedale mentre la Polizia Scientifica esegue i primi rilievi ed i Vigili del Fuoco espletano il triste compito di estrarre i cadaveri irriconoscibili di Schifani, Montinaro e Di Cillo.
Intanto i media iniziano a diffondere la notizia di un attentato a Palermo, ed il nome del giudice Falcone trova via via conferma. L'Italia intera, sgomenta, trattiene il fiato per la sorte delle vittime con tensione sempre più viva e contrastante, sinché alle 19:05, ad un'ora e sette minuti dall'attentato, Giovanni Falcone muore dopo alcuni disperati tentativi di rianimazione, a causa della gravità del trauma cranico e delle lesioni interne. Francesca Morvillo morirà anch'essa, intorno alle 22.
Volantini recanti una citazione del giudice Falcone: "Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini".
Due giorni dopo, il 25 maggio mentre a Roma viene eletto presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a Palermo, nella Chiesa di San Domenico, si svolgono i funerali delle vittime ai quali partecipa l'intera città, assieme a colleghi e familiari e personalità come Giuseppe Ayala e Tano Grasso. I più alti rappresentanti del mondo politico, come Giovanni Spadolini, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti, Giovanni Galloni, vengono duramente contestati dalla cittadinanza; e le immagini televisive delle parole e del pianto straziante della vedova Schifani susciteranno particolare emozione nell'opinione pubblica.
Il giudice Ilda Boccassini urlerà la sua rabbia rivolgendosi ai colleghi nell'aula magna del Tribunale di Milano: «Voi avete fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali». Nel suo sfogo il magistrato, che si farà trasferire a Caltanissetta per indagare sulla strage di Capaci, ricorderà anche il linciaggio subito dall'amico Falcone da parte dei suoi colleghi magistrati, anche facenti capo alla stessa corrente cui Falcone aderiva:

« Due mesi fa ero a Palermo in un'assemblea dell'Anm. Non potrò mai dimenticare quel giorno. Le parole più gentili, specie da Magistratura democratica, erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. Mario Almerighi lo ha definito un nemico politico. Ora io dico che una cosa è criticare la Superprocura. Un'altra, come hanno fatto il Consiglio superiore della Magistratura, gli intellettuali e il cosiddetto fronte antimafia, è dire che Giovanni non fosse più libero dal potere politico. A Giovanni è stato impedito nella sua città di fare i processi di mafia. E allora lui ha scelto l'unica strada possibile, il ministero della Giustizia, per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria contro la mafia. Ed è stata una rivoluzione. »
La Boccassini criticherà anche l'atteggiamento dei magistrati milanesi impegnati in Mani pulite:

« Tu, Gherardo Colombo, che diffidavi di Giovanni, perché sei andato al suo funerale? Giovanni è morto con l'amarezza di sapere che i suoi colleghi lo consideravano un traditore. E l'ultima ingiustizia l'ha subìta proprio da quelli di Milano, che gli hanno mandato una richiesta di rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Mi ha telefonato e mi ha detto: "Non si fidano neppure del direttore degli Affari penali" »
Ilda Boccassini, confermerà le critiche in un'intervista a La Repubblica del maggio 2002[18], in occasione dell'affissione di targa in memoria di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia. Il magistrato criticherà gli onori postumi offerti a Falcone, sostenendo che

« Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento.[...] Non c'è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di "amici" che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito  »
Nell'intervista ricorderà anche come diversi magistrati e politici, sia vicini a partiti della sinistra che della destra, criticarono fortemente Falcone quando questo era ancora vivo.
In particolare, l'opposizione a Falcone dei magistrati vicini al Pds fu fortissima: al Csm, per tre volte il magistrato palermitano subì dei veti. Quando concorse al posto di super-procuratore antimafia, gli venne preferito Agostino Cordova, procuratore capo di Palmi. Alessandro Pizzorusso, componente laico del Csm designato dal Partito Comunista, firmò un articolo sull'Unità sostenendo che Falcone non fosse "affidabile" e che essendo "governativo", avrebbe perso le sue caratteristiche di indipendenza. Successivamente, quando al Consiglio superiore della magistratura si dovette decidere se Falcone dovesse essere posto o meno a capo dell'Ufficio istruzione di Palermo, gli venne preferito Antonino Meli; votarono per quest'ultimo e quindi contro Falcone anche gli esponenti di Magistratura democratica, vicini al Pds, Giuseppe Borré ed Elena Paciotti, quest'ultima poi eletta europarlamentare dei Democratici di Sinistra.
Dopo la sua morte, Leoluca Orlando, commentando l'ostracismo che Falcone subì da parte di alcuni colleghi negli ultimi mesi di vita, dirà: «L'isolamento era quello che Giovanni si era scelto entrando nel Palazzo dove le diverse fazioni del regime stavano combattendo la battaglia finale».
All'esecrazione dell'assassinio, il 4 giugno si unisce anche il Senato degli Stati Uniti, con una risoluzione (la n. 308) intesa a rafforzare l'impegno del gruppo di lavoro italo-americano, di cui Falcone era componente[17]. Intanto, Paolo Borsellino, intraprenderà la sua ultima lotta contro il tempo, che durerà appena altri cinquantotto giorni, indagando nel tentativo di dare giustizia all'amico Giovanni.
Il 25 giugno 1992, durante un Convegno a Palermo organizzato da La Rete e dalla rivista Micromega[19][20], Paolo Borsellino affermò:

« Il vero obiettivo del CSM era eliminare al più presto Giovanni Falcone »

« Quando Giovanni Falcone solo, per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il CSM, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il CSM ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli. »

L'eredità

Francobollo commemorativo
Al magistrato, in Sicilia e nel resto d'Italia sono state dedicate molte scuole e strade, nonché una piazza nel centro di Palermo (nel giugno del 2008). A Falcone e al suo collega Borsellino il comune di Castellammare di Stabia ha dedicato l'aula del consiglio comunale intitolandola a loro nome,nel comune di Scafati è dedicata loro, una piazza proprio difronte alla scuola elementare "FERDINANDO II DI BORBONE",e anche nel comune di Casaluce in provincia di Caserta,è stata dedicata a Falcone una piazza su un bene confiscato alla camorra,Inoltre ai due colleghi magistrati è stato dedicato anche l'Aeroporto di Palermo-Punta Raisi. Un albero situato di fronte l'ingresso del suo appartamento, nella centralissima via Emanuele Notarbartolo a Palermo, raccoglie messaggi, regali e fiori dedicati al giudice: è "l'albero Falcone"[21].
Il 23 gennaio 2008, su proposta del sindaco Walter Veltroni, con una risoluzione approvata all'unanimità dal Consiglio dell'VIII Municipio di Roma, la località Ponte di Nona è stata rinominata Villaggio Falcone in suo onore[22].
All'uscita dell'autostrada Palermo-Capaci, in prossimità del luogo dell'attentato, è stata eretta una colonna che espone i nomi delle vittime di quel 23 maggio 1992. Qui il giudice, sua moglie e la scorta vengono commemorati il giorno dell'anniversario della strage, con la chiusura del tratto al traffico, come avvenuto anche nel 2010[23].
La Corte Suprema degli Stati Uniti, massimo organo giurisdizionale USA, ricorda il 29 ottobre 2009 Giovanni Falcone in una seduta solenne quale "martire della causa della giustizia"[24].

Opere

  • Rapporto sulla mafia degli anni '80. Gli atti dell'Ufficio istruzione del tribunale di Palermo, Palermo, S. F. Flaccovio, 1986.
  • Cose di Cosa Nostra, in collaborazione con Marcelle Padovani, Milano, Rizzoli, 1991.
  • Io accuso. Cosa nostra, politica e affari nella requisitoria del maxiprocesso, Roma, Libera informazione, 1993.

Nella cultura popolare

Teatro, cinema e televisione

Anche il teatro, il cinema e la televisione hanno onorato la memoria del magistrato palermitano:

Musica

Onorificenze

Medaglia d'oro al valor civile - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro al valor civile

«Magistrato tenacemente impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata, consapevole dei rischi cui andava incontro quale componente del 'pool antimafia', dedicava ogni sua energia a respingere con rigorosa coerenza la sfida sempre più minacciosa lanciata dalle organizzazioni mafiose allo Stato democratico. Proseguiva poi tale opera lucida, attenta e decisa come Direttore degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia ma veniva barbaramente trucidato in un vile agguato, tesogli con efferata ferocia, sacrificando la propria esistenza, vissuta al servizio delle Istituzioni.»
— Palermo, 5 agosto 1992
Il 13 novembre 2006 è stato nominato tra gli eroi degli ultimi 60 anni dal Time magazine.[26]

Note

  1. ^ Citato in: Maria Falcone, Giovanni Falcone un eroe solo, Rizzoli, 2012, pagina 29.
  2. ^ Citato in: L. Tescaroli, Perché fu ucciso Giovanni Falcone, Rubbettino Editore, Catanzaro 2001, p. 3.
  3. ^ Francesco La Licata, Storia di Giovanni Falcone, pp. 23-36
  4. ^ Francesco La Licata, Storia di Giovanni Falcone, pp. 37-44
  5. ^ Saverio Lodato, I professionisti dell'antimafia in Trent'anni di mafia, Rizzoli [2008], pp. 52-53. ISBN 978-88-17-01136-5
  6. ^ a b Saverio Lodato, I professionisti dell'antimafia in Trent'anni di mafia, Rizzoli [2008], pp. 55-56. ISBN 978-88-17-01136-5
  7. ^ Saverio Lodato, I professionisti dell'antimafia in Trent'anni di mafia, Rizzoli [2008], p. 58. ISBN 978-88-17-01136-5
  8. ^ Enrico Deaglio, Raccolto rosso: la mafia, l'Italia e poi venne giù tutto
  9. ^ a b Addaura, nuova verità sull'attentato a Falcone, Attilio Bolzoni, La Repubblica, 7 maggio 2010.
  10. ^ Anche se al suo dossier difensivo al CSM il sostituto procuratore Ayala fa discendere un ulteriore elemento di delegittimazione del pool antimafia, cioè gli addebiti deontologici che portarono al suo trasferimento per incompatibilità ambientale: Giuseppe AYALA: Chi ha paura muore ogni giorno – Mondadori 2008.
  11. ^ Giovanni Falcone - Biografia. Fondazione Falcone. URL consultato il 18-07-2010.
  12. ^ «QUANDO COSSIGA CONVOCO' LE TOGHE DI SICILIA». La Repubblica, 21 10 1993, p. 4. URL consultato in data 24-01-2010.
  13. ^ Maria Falcone a Orlando: ha infangato mio fratello
  14. ^ «MANNINO NON E' MAFIOSO E IL CASO VIENE ARCHIVIATO». La Repubblica, 12 10 1991, p. 6. URL consultato in data 18-10-2009.
  15. ^ Citato in: F. La Licata, Storia di Giovanni Falcone, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 120, 137-141.
  16. ^ Citato in: F. La Licata, Storia di Giovanni Falcone, Feltrinelli, Milano 2006, p. 169.
  17. ^ a b Si veda: C. Lucarelli, Blu Notte - Misteri Italiani (sesta serie - 2004), La Mattanza: dai silenzi sulla Mafia al silenzio della Mafia
  18. ^ Giuseppe D'Avanzo. «Boccassini: "Falcone un italiano scomodo"». La Repubblica, 21 5 2002. URL consultato in data 18-10-2009.
  19. ^ Una fra le numerose fonti online
  20. ^ Trascrizione intervento
  21. ^ Enrico Deaglio, Raccolto rosso: la mafia, l'Italia e poi venne giù tutto, p. 180
  22. ^ Nuova denominazione per Ponte di Nona P.d.z. "Villaggio Falcone"
  23. ^ AGI.it - FALCONE: ANAS DISPONE CHIUSURA AUTOSTRADA A/29 PER COMMEMORAZIONE
  24. ^ «Gli Usa ricordano Falcone». La Sicilia, 30 10 2009. URL consultato in data 30-10-2009.
  25. ^ Alessandrea Ziniti. «Falcone, mille ragazzi lo ricordano a Corleone». la Repubblica, 23 maggio 2003.
  26. ^ Giovanni Falcone, un eroe da ricordare - lagazzettaitaliana.com

Bibliografia

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