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martedì 10 febbraio 2009

Wen Jiabao visited Chinatown in London on 31st Jan 2009

La Cina e l'emergenza mussulmana...

di Alberto Rosselli

Lo spirito revanscista che da anni agita il multiforme ed inquieto mondo islamico non soltanto continua a mantenere in allarme l’Occidente (vedi il recente e sanguinoso attentato di Londra), ma coinvolge e destabilizza anche l’apparentemente granitico pianeta Cina, proiettato, almeno sotto il profilo economico, verso un futuro liberista, ma comunque condizionato da un sistema di governo marxista, dispotico, accentratore e schizofrenico: accondiscendente cioè nei confronti della nuova ‘casta’ dei neocapitalisti, ma totalmente contrario a concedere le libertà più elementari al popolo e alle molteplici minoranze etnico-religiose del paese, fomentando – è il caso della numerosa comunità mussulmana – un senso di ribellione che sta tramutandosi in una dura opposizione in parte strumentalizzata da diversi movimenti terroristici mediorientali (1).
L’esecuzione avvenuta pochi mesi fa a Kashi (nel Sinkiang, estremo lembo occidentale della Cina) di nove guerriglieri mussulmani accusati di “sedizione armata”, ha segnato l’ultimo drammatico capitolo di una vasta e assai poco nota rivolta che da anni insanguina questa remota regione percorsa nel Medioevo dalle carovane che collegavano l’Impero Celeste all’Occidente.
Nata in maniera spontanea (ma successivamente appoggiata e finanziata dai movimenti talebani afgani, da alcune frange fondamentaliste legate ad Al Khaida e a Bin Laden e, sembra, dal Sudan e dall’Iran) nel corso del 2002 la ribellione mussulmana ha iniziato ad estendersi, costringendo il governo di Pechino a dispiegare nel Sinkiang - e, più precisamente, nella regione dell’Uighur - quasi 80.000 soldati e decine di migliaia di, agenti e poliziotti, dotati di carri armati, mezzi blindati, armi pesanti, aerei ed elicotteri. Gli Uighur, etnia di religione mussulmana e di lingua turca (gruppo che costituisce il 60% della popolazione dell’intera regione, abitata da 16 milioni di individui), sono stati infatti i primi ad aderire in massa alla sommossa anti-cinese.
Come è noto, dalla fine della Guerra Civile (1949) Pechino vanta, almeno formalmente, e nonostante gravi attriti con Mosca, un totale ed ormai riconosciuto controllo su tutto il Sinkiang, estesa e desolata regione, abitata oltre che dagli Uighur anche da elementi tagiki, kazaki e kirghisi, anch’essi in gran parte mussulmani e tradizionalmente insofferenti sia nei confronti della Russia sia nei confronti della Cina. Nel XVIII e nel XIX secolo il Turkestan orientale (o Sinkiang), il bacino del Tarim e la Zungaria furono teatro di numerose ribellioni islamiche, soppresse nel sangue dagli imperatori celesti e, successivamente, nel XX secolo, la porzione più rilevante di questi popoli, sottomessi con la forza da Mosca, tentò a sua volta di ribellarsi contro il sistema comunista sovietico, dando vita negli anni Venti alla famosa, ma sfortunata ‘Rivolta dei Basmachi’ guidata dall’ex leader ottomano Enver Pasha, fautore e capo del Movimento Panturanico (2).
Ma ritorniamo al presente. Da circa cinquant’anni, nel tentativo di colonizzare con elementi cinesi il Sinkiang, spodestando ed assimilando di fatto gli Uighur, Pechino ha emanato ‘a beneficio’ di questa minoranza numerosi provvedimenti restrittivi della libertà di assemblea e di parola, esercitando sulla regione – forse in maniera ancora più dura di quanto non abbia fatto in Tibet – un controllo poliziesco asfissiante. Controllo che ha indotto i più autorevoli rappresentati del Movimento Islamico Cinese a parlare, per il Sinkiang, di una vera e propria “politica di conquista e di discriminazione nei confronti della popolazione locale di chiaro stampo stalinista, non esente da persecuzioni carcerarie, deportazioni e omicidi”. Nel 1942, l’etnia Uighur costituiva il 78% della popolazione del bacino del Tarim, ma attualmente questa percentuale sembra essere scesa al 48% “proprio e soprattutto a causa delle numerose deportazioni di massa che il governo cinese ha attuato a partire dal 1949”. Già nei primi anni Cinquanta, le continue vessazioni ai quali erano sottoposti avevano costretto circa 20.000 Uighur a fuggire oltre confine e a trovare asilo nelle repubbliche sovietiche confinanti, dove ricevettero però un trattamento non certo migliore. Per tentare di ridurre al minimo la popolazione mussulmana delle regioni occidentali, verso la metà degli anni Settanta, il governo di Pechino intensificò il processo di colonizzazione, trasferendo nel Sinkiang decine di migliaia di contadini cinesi Han, avviando nel contempo una massiccia campagna di sterilizzazione forzata che ebbe come obiettivo le donne Uighur. Ma a rendere ancora più cruciali i rapporti tra cinesi e Uighur furono però i cosiddetti “piani economici popolari” varati negli anni Ottanta che favorirono di fatto lo sviluppo e la crescita economica dell’etnia cinese locale. Il tutto a detrimento dei diritti e della libertà degli Uighur.
Intervistato in proposito, il sindaco di Retina, città situata non lontano da Kashghar, lungo la leggendaria Via della Seta, sostiene che da anni Pechino stia investendo centinaia di milioni di dollari in un grande progetto di irrigazione che consentirà a circa un milione di agricoltori del Sichuan di traslocare nella regione e prendere possesso delle terre mussulmane. (2) “I cinesi ci stanno privando di tutto. Prima Pechino utilizzava le nostre terre per effettuare i suoi esperimenti nucleari (tra il 1965 e il 1999, nella zona del Lop Nor, sono stati fatti esplodere 45 ordigni all’idrogeno, causando l’irradiamento e la morte di non meno di 250.000 Uighur, ndr) ed ora vuole addirittura cacciarci dai nostri campi e dalle nostre abitazioni”.
Ma non è tutto. Come riferiscono esponenti mussulmani, i molti funzionari e burocrati di etnia Han inviati nel Sinkiang per “dirigere e coordinare lo sviluppo della regione” hanno istituito un sistema di gestione del territorio e della sua popolazione estremamente rigido e discriminatorio, escludendo da tutti i centri di potere e decisionali, anche quelli marginali, i membri della comunità Uighur. E tutto ciò, “in nome dello sviluppo armonico della grande e solidale ‘famiglia cinese’,proiettata verso un futuro di pace e di progresso”. Da qui l’ondata delle violente ribellioni che da dieci anni stanno mettendo a soqquadro l’intera Cina occidentale, senza per altro suscitare la benché minima attenzione da parte dell’ONU o dei movimenti pacifisti – soprattutto italiani - evidentemente troppo impegnati a seguire le disavventure di altre minoranze, come quella palestinese. Dal canto loro, le grandi potenze occidentali, probabilmente non molto interessate a mettere il naso negli affari interni del governo di Pechino, già infastidito per le troppe attenzioni concesse, soprattutto dagli Usa, ai tibetani e al loro paese soggiogato e governato con la forza, alla stregua di una colonia, preferiscono – almeno per il momento -tenersi alla larga dall’’emergenza Sinkiang’.
Isolata, ma non certo rassegnata, dall’inizio degli anni Novanta, la minoranza mussulmana del Sinkiang ha imboccato dunque la strada della resistenza, sia passiva che attiva, contro la Cina, organizzando grandi manifestazioni di protesta ed iniziando ad allacciare rapporti con i movimenti fondamentalisti islamici ed attuando anche diversi attentati, il primo dei quali è stato compiuto nella città di Urumqui. Il 25 febbraio 1997, un gruppo di insorti ha, infatti, piazzato ordigni esplosivi su tre autobus, uccidendo 5 persone e ferendone 60. E sempre nel ‘97, nella città di frontiera di Yining migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in seguito all’arresto, da parte della polizia cinese, di alcune dozzine di mussulmani accusati di “sovversione ed alto tradimento”. Secondo resoconti clandestini, centinaia di giovani hanno affrontato la polizia, scontrandosi con essa. Poi hanno sfasciato negozi e auto, attaccando ed incendiando uffici pubblici e abitazioni dei cinesi appartenenti all’etnia Han.
Tre giorni dopo le violenze ad Urumuqi, il governo di Pechino ha commentato sinteticamente gli episodi di violenza, sottolineando però “l’assoluta sicurezza della regione, controllata dalle forze di polizia”. Le autorità cinesi hanno addossato la colpa dei gravi disordini di Yining - che hanno provocato diversi morti, centinaia di feriti e alcuni milioni di euro di danni - ad un “minuscolo gruppo di elementi sovversivi mussulmani” accusati di “volere frantumare l’unità della patria”. Versione, quest’ultima, ovviamente, contestata dai capi del Movimento Islamico. “Sono stati i cinesi ad avviare una politica di violenta repressione nei nostri confronti. Noi Uighur combatteremo per la nostra libertà e indipendenza”, ha dichiarato il leader mussulmano Azat Akimbeck testimone – così, almeno egli sostiene - di altre “precedenti, civili manifestazioni, soffocate nel sangue dalla polizia cinese”.
Secondo i resoconti di Akimbeck, nella notte del 4 febbraio 1996, numerosi reparti cinesi della Sicurezza Pubblica circondarono – “senza alcun valido motivo” - il quartiere mussulmano di Yining, effettuando perquisizioni nelle abitazioni e nelle moschee ed arrestando centinaia di religiosi e civili. E il mattino seguente, un migliaio di giovani mussulmani scese per le strade della città protestando per l’accaduto e pretendendo che i capi della polizia comunista riferissero circa il destino delle persone arrestate nella notte. “Si trattò - ha precisato Muhitdin Mukhlisi, uno dei capi del movimento mussulmano di Almaty – di un corteo assolutamente pacifico. Purtroppo, la polizia comunista agì con la forza, pestando ed arrestando alcune centinaia di ragazzi.” Mukhlisi ha ammesso tuttavia che alcuni dimostranti, armati di pietre e bastoni, assalirono un gruppo di poliziotti dotati di fucili a ripetizione, ma non ha spiegato se prima o dopo le cariche degli agenti. Durante i tafferugli almeno una decina di Uighur rimasero uccisi o feriti e così altrettanti poliziotti. Secondo alcuni testimoni occidentali, le forze dell’ordine cinesi utilizzarono gas lacrimogeni e cannoni ad acqua, ma anche armi da fuoco. In seguito a questo scontro, la polizia e l’esercito misero la città in stato d’assedio, chiudendo il vicino confine con il Kazakistan per cinque giorni. I media governativi riferirono della morte, per mano dei rivoltosi, di circa una decina di persone. Anche se, come da copione, i capi del Movimento Islamico in esilio ad Almaty sostennero che la polizia cinese uccise 70 manifestanti, più ad altri 31 successivamente freddati nel cortile della locale caserma di Pubblica Sicurezza.
Un certo numero di capi Uighur della comunità di Almaty è convinto che il governo cinese stia per scatenare una vasta campagna di soppressione e che una particolare direttiva segreta emanata dal partito comunista (documento del Partito Centrale N° 8), contro “il separatismo nazionale e le attività religiose illegali” confermerebbe questa ipotesi. D’altra parte, ricordiamo che nel 1950 la prima Repubblica cinese mussulmana creata nel 1944, venne schiacciata da Mao, e che la successiva promessa di dare vita ad una Regione Autonoma Uighur non fu mai mantenuta né da Mao né dai suoi successori. “Le cosiddette ‘tutele’ contenute nella costituzione cino-comunista relative alla libertà di religione sono soltanto una truffa”, ha dichiarato Babur Makhsut, ex-membro del partito comunista ed ex sindaco mussulmano di Hetian, fuggito nel 1995 in occidente. “In questi ultimi anni – continua Makhsut – in molte città del Sinkiang si sono verificate spontanee sollevazioni da parte della popolazione mussulmana: rivolte che hanno portato all’arresto di circa 3.000 persone”.
Secondo gli scarni e reticenti resoconti ufficiali redatti dalle autorità di Pechino (ed in seguito confermati da esponenti del Movimento islamico), la prima grande insurrezione mussulmana nel Sinkiang sembra essersi verificata nel 1990 a Barin, vicino alla città di Kashghar. Qui, un grosso gruppo di ribelli mussulmani armati occupò per qualche ora il locale municipio, massacrando tutti i funzionari cinesi e proclamando una sorta di auto-governo. Poche ore più tardi, un reparto blindato dell’esercito cinese riconquistò l’edificio, uccidendo almeno 200 rivoltosi. Successivamente, le autorità proclamarono la legge marziale e il coprifuoco. In quell’occasione, Pechino riferì che queste straordinarie misure restrittive si erano rese anche necessarie “per contenere le bande di criminali mussulmani che, attraverso il traffico della droga e il contrabbando di armi, alimentano il Movimento islamico separatista in Cina occidentale”. Accuse, queste, che vennero respinte con decisione dai rappresentanti mussulmani Uighur in esilio. “La loro strategia è quella di impedire agli Uighur di riunirsi e di praticare i più elementari diritti, compreso quello del credo religioso. La verità è che Pechino vuole annientare la nostra comunità” sostiene Babur Makhsut.
Sempre secondo Makhsut, nel luglio 1995, a Hetian, sul confine meridionale del deserto di Takimakan, la polizia cinese cercò di impedire alla comunità mussulmana di assistere al servizio di preghiera del venerdì officiato dall’imam locale, che in seguito fu arrestato con l’accusa di fomentare la rivolta. Secondo l’ex-sindaco della città, Babur Makhsut, fuggito in Occidente, “ad Hetian la polizia cinese uccise una cinquantina di persone e ne ha arrestate non meno di 500”. Ma c’è dell’altro. “Nel 1996, nella città di confine di Aksu, a sud di Yining, migliaia di Uighur sono stati arrestati senza motivo dalla polizia e 20 di questi condannati a morte dai tribunali militari”. Almeno così sostengono i leader mussulmani. Tra il 20 aprile e il 9 giugno 1996 – sostengono altri osservatori - una durissima repressione delle forze dell’ordine cinesi avrebbe portato alla carcerazione di 2.700 Uiughur, anche se rappresentanti di questa minoranza all’estero si è parlato addirittura di 18.000 arresti.
Secondo le ultime notizie provenienti dal Dipartimento degli Esteri statunitense e dalla CIA, attualmente la situazione nel Sinkiang “mussulmano” si sta facendo sempre più pesante e il rigido atteggiamento di Pechino altro non farebbe che renderla ancora più esplosiva. Preoccupati dal progressivo estendersi del fenomeno fondamentalista e da quello del terrorismo internazionale di matrice islamica, gli Stati Uniti (accusati, una decina di anni fa, da Pechino di appoggiare attraverso la CIA gli “indipendentisti islamici”) auspicherebbero, da parte del governo cinese, una politica più attenta, severa, ma anche e soprattutto più saggia, in modo da isolare le cellule rivoluzionarie più estremiste, salvaguardando però l’insieme della popolazione mussulmana del Sinkiang incline per tradizione a professare un credo religioso abbastanza moderato. Staremo a vedere come la Cina saprà gestire un problema che essa, purtroppo, giudica di sua esclusiva competenza, ma che in realtà, e malauguratamente, riguarda, per i suoi risvolti e i suoi inevitabili contraccolpi, l’intero consesso internazionale.

Fonte: http://www.iostoconoriana.it

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