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martedì 10 febbraio 2009

Le foibe fra ricordo e ricerca...

Quando si conosceva un luogo a malapena o per sentito dire, le carte medievali riportavano "Hic sunt leones", "Qui ci sono i leoni". Un modo per dire che su quelle terre o acque si poteva solo immaginare qualcosa di terribile. Le foibe sono anche questo: un ricordo lacerante, talvolta sepolto e su cui s’indaga – e si parla – poco. Ben venga, dunque, chi affronta l’argomento davanti ad un uditorio numeroso e variegato; non solo studenti o pensatori di sinistra, ma anche adulti, anziani e parenti delle vittime. Emblematico che la scritta "Hic sunt leones" comparisse sulla maglia di alcuni universitari… folkloristici e goliardici quanto si vuole, ma senza dubbio desiderosi di sapere.

Per prima cosa chiariamo i termini da usare. La "foiba" è un fenomeno distinto da processi sommari, esecuzioni, campi di prigionia e via dicendo che hanno mietuto ben più vittime. Per "infoibamento" s’intende il gettare corpi, legati insieme e talvolta ancora in vita, nelle doline carsiche adibite a macabre fosse comuni. Ma un accordo sulla definizione non basta; né, di per sé, risolve il problema inserire l’argomento nei manuali di storia, magari come capitolo a parte. L’informazione, in quanto tale e come spunto critico, deve poggiare su basi più solide, ampie e condivise, che il contesto scolastico non è in grado di offrire. Già sul piano terminologico, la "foiba" mette in difficoltà e crea equivoci tra i profani e gli stessi addetti ai lavori. Un terreno minato poi la memoria, dura e tutt’altro che pacificata; eppure necessaria affinché la storia sia tramandata e, in un secondo momento, sistemata in una visione lucida, oggettiva. Da ciò è nata l’idea di un convegno dal titolo forte –"La menzogna dei martiri: il mito reazionario delle foibe" – ma dai toni pacati, che proponesse un confronto più aperto e specialistico rispetto a quello del 27 aprile 2004, tenutosi con diverso spirito (si veda l’articolo su Questotrentino del 15 maggio 2004, Il mito delle foibe).

La presenza come mediatore di Gustavo Corni, valido docente di Storia Contemporanea della Facoltà di Sociologia di Trento, ha garantito i requisiti assenti la volta precedente: approccio sereno e dialettico, sul piano adeguato e con la dovuta scientificità. Inoltre, l’11 novembre 2004 la sala Kessler ha ospitato Raoul Pupo, membro della commissione italo-slovena sulle foibe, al posto dei meno qualificati (e più polemici) Giorgio Pira, ricercatore membro del Collettivo Gramsci, e Gianni Perghem, partigiano. L’unico ripescato è Sandi Volk, tra i pochi storici sloveni a parlare un italiano fluente; ciò, insieme alla sua competenza, ha convinto Universitando a confermarlo come controparte. Anche gli interventi fuori luogo o deliranti del pubblico sono stati così circoscritti da non pregiudicare un dibattito serio e costruttivo, forse il primo fra esperti e membri dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. Un passo importante, cui speriamo seguiranno altri in una congiuntura politico-sociale tra le più propizie.
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a veniamo ai contenuti. Presentati i colleghi Volk e Pupo, Corni ha spiegato il concetto di "foiba", rivolgendosi ai giovani in sala poiché "gli altri, probabilmente, erano già al corrente". Ha poi illustrato un excursus storico-sociale e i rischi di strumentalizzazione politica di un tema che è – e dovrebbe restare – storiografico. Le teorie imperanti risalgono agli anni Cinquanta e da allora non sono state più aggiornate. Pertanto, "riflettono ciò che si pensava soprattutto in Istria, Venezia Giulia e Dalmazia, ma non restituiscono la complessità del fenomeno". Un’interpretazione militante, che vede nella "pulizia etnica" la sola motrice delle foibe e fa propria la memoria delle vittime. Dagli anni ’60, l’interesse scompare del tutto, una volta risolta la questione di Trieste. Solo nei ’90 si riprende a denunciare i crimini del passato, proponendo anche un’ottica a freddo, diversa da quella di "vittime" ed "attori".

Non è negazionismo: la progettualità politica che guida le stragi è unanimemente riconosciuta dalla commissione, come dalla maggior parte degli storiografi. La prospettiva d’analisi, tuttavia, getta luce su aspetti finora sottaciuti o non toccati. In primis l’entità del fenomeno: un genocidio (come quello ebraico) presuppone alti numeri, lo sterminio di un intero popolo, ma i riscontri parlano di poche migliaia di infoibati; mentre intenzioni precise di "pulizia etnica" si scontrano col dato di fatto che, pur con importanti eccezioni, vengono colpite solo alcune categorie di Italiani. Non in nome della "nazionalità" in quanto tale, cioè dell’essere italiani, bensì per una "volontà di appartenenza nazionale", vale a dire il voler essere italiani e, più precisamente, sotto la giurisdizione di Roma. Anche molti Sloveni incontrano una morte atroce perché contrari all’adesione (o addirittura alla formazione) di uno Stato sloveno, specie di stampo staliniano.

In questa duplice motivazione sarebbe il fulcro delle foibe: da un lato la matrice "nazionale", col significato particolare che abbiamo spiegato; dall’altro quella "politica", che vede negli anti-titini dei nemici del popolo, della libertà, del comunismo, e dunque collaborazionisti. Accusa non sempre veritiera ma certificata in vari casi dalla commissione. Per avere un quadro completo, Volk e Pupo concordano sulla necessità di approfondire le biografie di tutti gli infoibati, così da capire quanti innocenti e civili vi siano e che cosa abbiano fatto le autorità slovene per impedirlo o punire gli autori.

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i là da questo, a nostro avviso, l’elemento che distingue questa mattanza da quella, poniamo, della Rivoluzione Francese è la parvenza di legalità. Durante il Terrore, la ghigliottina segue un processo più o meno sommario, secondo le facoltà economiche ed il nome dell’imputato; nella Seconda Guerra Mondiale e oltre, invece, il dramma si consuma spesso in balìa del furore popolare. Simile la lettura proposta dallo storico Elio Appi, che però trascura componenti basilari che mettono in crisi alcuni assunti o persino punti-cardine della sua teoria. Una "epurazione preventiva" non dovrebbe risparmiare la classe operaia giuliana e i comunisti italiani che, anzi, fraternizzano con i titini come testimoniato da più parti e dall’esperienza personale di un anziano intervenuto al convegno. Inoltre, il processo di conquista del potere e formazione di uno stato sloveno staliniano, con conseguente movimento di liberazione, dà per scontata la vittoria dei titini già nel ’43, quando invece le pressioni di Gran Bretagna e USA possono fare la differenza. Il timore che gli anglo-americani sfruttino gli ex-collaborazionisti per rovesciare il governo di Tito è corroborato dall’intervento britannico, nel ’44, contro il FLN di sinistra in Grecia.

Il punto di vista locale sottrae complessità al fenomeno, che andrebbe invece guardato a livello balcanico, europeo o persino mondiale. Ustascia, fascisti e Italiani che vogliono la sovranità italiana sono eliminati fisicamente, o messi fuori gioco quanto a diritti politico-civili, perché rappresentano un pericolo, più che un ostacolo, al processo di democratizzazione e autodeterminazione del popolo sloveno. Il primo fallisce comunque per motivi sia interni che esterni, dovuti all’apparato dirigistico di Tito ed alle ingerenze di Stalin. Ma questa, benché il legame sia evidente, è un’altra storia. Piuttosto, è utile notare come i complessi rapporti diplomatici influenzino l’atteggiamento dei governi succedutisi in Italia e Slovenia. La trasparenza non è una virtù quando sono in discussione delicati equilibri internazionali; così, per esempio, le trattative per il ritorno di Trieste all’Italia sono compensate anche col silenzio, da entrambe le parti, sui reciproci scheletri nell’armadio. Repressione fascista di comunità slovene nella Venezia Giulia e infoibamenti di Italiani dissidenti o ritenuti "destabilizzanti" nelle doline carsiche si annullano a vicenda coi loro orrori.

Col trattato di pace di Parigi (’47) l’Italia, tra le altre cose, cede alla Jugoslavia gran parte dell’Istria e consegna Trieste all’amministrazione degli alleati. Mesi dopo, con il 5° Gabinetto De Gasperi, il Bel Paese s’inserisce - e schiera - nel quadro internazionale aderendo agli accordi dell’OECE e al Patto Atlantico. Nel ’54, Trieste torna italiana con gli Accordi di Londra e in breve il caso foibe è archiviato per motivi di Stato con gli esuli accolti in modo indegno. Dopo 30 anni, la fine del comunismo e della "cortina di ferro", l’ingresso della Slovenia nell’UE cambiano giochi e interessi dell’Italia.

Come fa notare Volk, prima le foibe erano, senza eccezioni di rilievo, la costruzione di un mito: da una parte gli "immacolati" (le vittime), dall’altra i "demoniaci" (i carnefici). Ora c’è posto per le sfumature e la commissione restituisce uno scenario articolato, in cui muoversi senza dogmi o pregiudizi, sgombri dall’ottica – talvolta privilegiata ma sempre di parte – di chi ha "subito" o "agito" la strage. Volk non è ottimista: "La storiografia non solo ha delle responsabilità, ma ha anche fatto passi indietro usando parzialmente la documentazione". Se è così, dovremo impegnarci per conseguire una pacificazione nazionale che non calpesti né i morti né i vivi, e nemmeno gli ideali su cui si fonda la Repubblica; e per sapere che cosa e chi ricorderemo ogni 10 febbraio.

Articoli precedenti:

Il mito delle foibe
(n° 10 del 15.5.04)

Le foibe e il silenzio di allora
(n°8 del 17.4.2004)

e successivi:

Un esempio: la ricerca sugli esuli istriani
(n°14 del 16.7.2005)

La grotta dell’orrore
(n° 11 del 3.6.2006)

Foibe: confini e orizzonti del ricordo
(n° 4 del 24.2.2007)

La memoria ritrovata
(n° 6 del 21.3.2008)

Archivio QT
vedi articoli sui seguenti argomenti:
Storia

Fascismo

Yugoslavia

Fonte: http://www.questotrentino.it




























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