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martedì 10 febbraio 2009

FOIBE: Noi non dimentichiamo!!!

Cosa sono stati i 40 giorni di occupazione jugoslava di Trieste alla fine della seconda guerra mondiale.

Piero Delbello - da "40 giorni" - catalogo della mostra fotografica

Fra la fine di aprile e il principio di maggio del 1945 quale era l'aria che si respirava a Trieste, cosa succedeva in Istria? L'avvento delle forze popolari del maresciallo Tito a cosa avrebbe portato? Da quali premesse si partiva? Per arrivare a dove?

L'esame della questione giuliana legata alle vicende della guerra e del dopoguerra è impresa poco semplice e controversa per le connotazioni che qualunque descrizione porta a raggiungere.

Dovremmo pensare al luglio del '43, al settembre, riandare ai tragici fatti seguiti all'armistizio italiano, al dissolvimento dell'ordine, a quelle violenze e a quegli infoibamenti, i cui tristi recuperi delle salme sono ampiamente documentati. Chiederci il perché e il come i fatti sono accaduti. Domandarci se la tesi, da taluni portata avanti, della jaquerie sia effettivamente percorribile, se corrisponde al vero che il dramma delle foibe sia divisibile e, sostanzialmente, distanziabile in due momenti. L'uno, appunto del settembre '43, legato a moto spontaneo popolare volto ad una ribellione dopo anni di soprusi, ovviamente fascisti, l'altro invece legato maggiormente a Trieste e Gorizia più che all'Istria del maggio '45, più pianificato e rispondente ad una volontà "ufficiale di normalizzazione diciamo jugoslava" con le deportazioni e, spesso, il non ritorno.
Dovremmo ancora considerate lo stato delle cose riguardo l'Istria legandoci a quel unico "documento ufficiale", anche questo fra virgolette, che è la dichiarazione di Gilas per cui nel 1946 sarebbe stato mandato, da Tito, con Kardelj in Istria con il compito di indurre tutti gli italiani ad andar via con pressioni di ogni tipo. "E così fu fatto" disse Gilas.

Ma dovremmo, ancora, andare più indietro, al 1942, a quelle strane presenze, in diversi paesi dell'Istria, di gente non dei luoghi, a quelle testimonianze che raccontano di chi iniziava a manifestarsi con intenzioni violente verso gli italiani dell'Istria.

Dovremmo chiederci se è vero e - di conseguenza - possibile affermare, come ha fatto qualcuno, che le foibe e l'esodo in Istria sono "due fenomeni fra loro piuttosto diversi" (ma cosa significa ciò e a cosa vuole portare tale affermazione?) ma che "congiuntamente sono diventati il simbolo della dissoluzione violenta dell'italianità nei territori giuliani in vario modo caduti sotto il controllo jugoslavo". Fenomeni diversi .... Certo: andare o morire non sono la stessa cosa. Anche se andare è un po' morire. E se restare può significare morire.

Naturalmente, condotti dai se e dai ma quei ma che dicono che prima c'era stato il Fascismo dovremmo entrare in quel meccanismo di cause ed effetti per cui, come ci e stato fatto vedere, il peccato originale è uno e uno soltanto. L'inizio dei mali avrebbe una data precisa da cui non si può transigere. E quello che c'era prima di questa data non ha alcuna rilevanza.

Fatto sta che parlare di fine della guerra, di "liberazione" a Trieste e, più estesamente, nella provincia orientale d'Italia è complesso, contestabile e controverso. Le nostre terre paiono, più che il luogo dei valori assoluti (già sembra difficile accordarsi su questi ...), il luogo dove quei teorici valori assoluti sono anima germinatrice di scontro con valori particolari. Domande complesse dove scelte giuste e scelte sbagliate, fatte partire consuetamente da premesse obbliganti, somigliano più a opinioni che ha dati di fatto. Le semplificazioni non sono solo terribilmente facili: sono argutamente facili.

Fatto sta, ancora, che a Trieste lo scontro bellico "regolare" in qualche modo risolve la sua ultima battuta fra il 29/30 aprile e il 2/3 maggio 1945. Pace e liberazione?

Il confine orientale, a differenza del resto d'Italia, non conobbe una resa dei conti fra aguzzini e perseguiti, fra giusti e sbagliati, fra verità più vere e verità meno accettabili. Le violenze sono facilmente paragonabili alle violenze poiché il prodotto è lo stesso. Ma le motivazioni, che di per sé non possono assolvere mai gli esiti, consentono, però, di seguire i percorsi dei fatti. A Trieste, nell'Istria non c'era da fare l'Italia libera, bisognava essere italiani o qualcosa di diverso. Magari in nome di un ideale che fra patria e nazione premiava l'internazionale. Questo dal punto di vista degli italiani di Trieste. Altro poteva essere il discorso per gli sloveni.
Non ci fu scontro fratricida, nessun fratello nel sangue: come si poteva essere fratelli nel sangue se le delazioni dei fratelli ti uccidevano? E che fratelli erano, se l'illusione rivoluzionaria internazionale avrebbe vissuto la delusione nazionale? Quando la parte italiana si incontra, si confonde, ma nello stesso momento anche si scontra con l'altra parte, non c'è fratellanza. C'è intolleranza, meschinità, violenza. E naturalmente morte. La più brutta. Nel buio, nel silenzio. Di notte.

Per Trieste non ci fu pace. La città conobbe 42 giorni infiniti di nulla. Dove non capivi se l'annullamento fisico contava di più di quello morale. Ed erano la stessa cosa. L'altra Trieste degli sloveni dei dintorni, di chi, pur non sloveno, ci aveva creduto moriva già, in alcune sue parti, durante quei quaranta giorni.
"Trieste Settima repubblica nella federativa jugoslava" e "non è Tito che vuole 1'Istria ma l'Istria che vuole Tito" non erano solo affermazioni di propaganda, ma sarebbero state, per chi aveva quella buona fede, chimeriche illusioni che il tempo - e neanche tanto - avrebbero sconfessato.

Oggi verrebbe da chiedersi quanti di coloro che il 3 maggio festeggiavano per l'annessione di Trieste alla Jugoslavia potrebbero, ragionevolmente, continuare a pensare allo stesso modo. Non solo fra i comunisti, presto disillusi nel loro ideale, ma anche fra gli sloveni di Trieste.
Non fu necessario attendere il '48 per capire che la Jugoslava di Tito non era il paese del bengodi, ma uno stato di polizia, con i campi di internamento, con le deportazioni, con la privazione delle libertà personali, con i lavori coatti, con le purghe, con i ragazzi e le ragazze istriani, che ancora restavano, obbligati a costruire le strade per la grande Jugoslavia, con le sparizioni, con le opzioni negate, con le punizioni e, in molti casi, la morte. Da subito era stato ampiamente chiaro che questa dittatura - poiché queste, ci hanno insegnato, sono le caratteristiche di una dittatura - tendeva i suoi nervi nel controllo incondizionato di tutta la provincia orientale d'Italia, Trieste e Gorizia comprese.

Gli italiani di Trieste tutti, dal 1 maggio al 12 giugno 1945, conobbero terrore, deportazione e morte. Trieste era diventata Jugoslavia già dal primo ordine del giorno emesso dal Komanda Mesta. Nemici erano diventati immediatamente sia i Volontari della Libertà insorti il 30 aprile, sia i finanzieri che in parallelo combatterono contro i tedeschi. E come tali, con facile inganno, furono trattati e sparirono. Nemico era il tricolore italiano, a patto che non avesse l'illusione della stella rossa. E nemici erano tutti coloro che mostrarono il nostro tricolore, quello puro. Se lo ricordano quelli che subito lo esposero alle finestre e ricevettero in cambio le raffiche titine. Se lo ricordano quelli che stavano accanto ai caduti di via Imbriani il 5 maggio. Se lo ricorderebbero i civili che stavano, con le mani legate, in mezzo ai finanzieri e ai militari incolonnati verso la deportazione il 3 maggio. Se lo ricorderebbero se fossero ritornati.

Oggi verrebbe da chiedere ai nostri esuli istriani, fiumani e dalmati, alla nostra gente della zona B, se si stava bene nella jugoslavia di Tito.
Verrebbe da chiedere ai triestini (non solo ai morti del 5 maggio), sloveni compresi, senza neanche tanto senno di poi, come ricordano quei 42 giorni jugoslavi di Trieste.

Verrebbe da chiederlo ai finanzieri e ai militari traditi dagli jugoslavi, deportati da Trieste il 3 maggio e spariti. Verrebbe da chiederlo ai Volontari della Libertà che, come i finanzieri, insorsero in armi il 30 aprile 1945 contro i tedeschi ma, all'arrivo dei titini, dovettero ritornare in clandestinità.

Il lungo e travagliato viaggio delle genti adriatiche, tutte, cela le sue radici in epoche lontane: che paiono più o meno vicine a seconda del punto di vista di chi vuole scriverne. La tradizione del nostro dopoguerra, quella della repubblica nata dalla Resistenza, ha assolutizzato valori e simboli. E, nell'assoluto, è massificante e bello riconoscersi. Oggi, nel nome degli assoluti simbolici, ci siamo, però, scordati i perché della storia. Ci hanno aiutato a farlo. I nostri vecchi sono morti, così i vecchi dei nostri fratelli diversi. Restiamo noi, figli di fratelli diversi fra loro, incapaci di sapere se nostro padre era Caino o Abele, che dovremmo e vorremmo chiederci molte cose. Che dovremmo e vorremmo capire. Ma non è facile. Dovremmo e vorremmo, con quelli che sono ancora di un'altra generazione più fresca rispetto a noi, essere la gioventù d'Europa. Ma non è facile. Perché la memoria è memoria e non deve essere condivisa per forza. Non può essere condivisa se è diversa. Storia e memoria non sono sovrapponibili. Dovrebbero, ma non lo sono.

Piero Delbello - da "40 giorni" - catalogo della mostra fotografica

Fonte: www.lefoibe.it

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